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Raffaele Bovenzi

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FRIDA KAHLO

PREGHIERA INDIANA

GIORGIO COPPOLA

DONATO AMBROSANIO

CANTO IGBO

KHALIL GIBRAN

CESARE PAVESE

ALDA MERINI

GIANNI RODARI

Nazım Hikmet -  Poeta

 

Nâzım Hikmet,  all'anagrafe Nâzım Hikmet Ran è stato un poeta, drammaturgo e scrittore turco naturalizzato polacco. Definito "comunista romantico" o "rivoluzionario romantico", è considerato uno dei più importanti poeti turchi dell'epoca moderna.

Nascita: 15 gennaio 1902, Salonicco, Grecia

Morte: 3 giugno 1963, Mosca, Russia

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Il più bello dei mari

 

Il più bello dei mari
è quello che non navigammo.
Il più bello dei nostri figli
non è ancora cresciuto.
I più belli dei nostri giorni
non li abbiamo ancora vissuti.
E quello
che vorrei dirti di più bello
non te l’ho ancora detto.

 

Amo in te

 

Amo in te
l’avventura della nave che va verso il polo
amo in te
l’audacia dei giocatori delle grandi scoperte
amo in te le cose lontane
amo in te l’impossibile
entro nei tuoi occhi come in un bosco
pieno di sole
e sudato affamato infuriato
ho la passione del cacciatore
per mordere nella tua carne.

amo in te l’impossibile
ma non la disperazione.

Anima mia


chiudi gli occhi
piano piano
e come s’affonda nell’acqua
immergiti nel sonno
nuda e vestita di bianco
il più bello dei sogni
ti accoglierà

anima mia
chiudi gli occhi
piano piano
abbandonati come nell’arco delle mie braccia
nel tuo sonno non dimenticarmi
chiudi gli occhi pian piano
i tuoi occhi marroni
dove brucia una fiamma verde
anima mia.

frida kahlo

Pittrice messicana (Coyoacán 1907 - ivi 1954).A partire dal 1925, in seguito a un grave incidente automobilistico che la costrinse a lunghi periodi di immobilità, si dedicò da autodidatta alla pittura. Nel 1929 sposò D. Rivera con il quale ebbe un rapporto intenso e tormentato, condividendone l'impegno politico e la ricerca artistica, presto definita da un linguaggio personalissimo che fonde elementi surreali e naïf in atmosfere e immagini legate alla propria terra.

 

Chi non conosce Frida Kahlo, una delle più importanti artiste messicane e grande donna dallo spirito rivoluzionario?

Nata nel 1907 a Città del Messico, Frida è stata e sarà sempre una delle figure femminili più affascinanti e influenti di tutto il Novecento. All’interno di un corpo fragile, con difficoltà che andranno a colpire le sue gambe, la sua spina dorsale, e anche la sua fertilità, ha saputo rinnovare sconfitta e dolore fisico in grandi capolavori della storia dell’arte.

Oltre questo, al centro delle sue opere osserviamo una passione incondizionata per l’arte, l’amore per il suo Messico, per la politica e, anche se tormentato, l’amore per l’artista Diego Rivera.

Frida Kahlo, nel corso degli anni, è diventata simbolo delle donne e della loro emancipazione. È un’icona femminista, che con grande dedizione ha dedicato la sua vita per l’espressione della libertà, è l’esempio di forza che ogni donna dovrebbe seguire; non per questo le sue pennellate, i suoi colori vividi e forti, l’hanno trasformata nell’immagine che rappresenta la forza di tutte le donne nel mondo.  

“Non dipingo i miei sogni, dipingo la mia realtà” era ciò che lei stessa diceva quando le chiedevano se i suoi quadri fossero surrealisti. La tela era un mezzo per esorcizzare ciò che non poteva migliorare. Infatti, costretta a letto per molti mesi dopo l’incidente avuto a 18 anni, che la porterà a soffrire per tutta vita, dipingerà per lo più autoritratti perché “(…)sono la persona che conosco meglio”.

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Ti meriti un amore che ti voglia spettinata,
con tutto e le ragioni che ti fanno alzare in fretta,
con tutto e i demoni che non ti lasciano dormire.
Ti meriti un amore che ti faccia sentire sicura,
in grado di mangiarsi il mondo quando cammina accanto a te,
che senta che i tuoi abbracci sono perfetti per la sua pelle.
Ti meriti un amore che voglia ballare con te,
che trovi il paradiso ogni volta che guarda nei tuoi occhi
e non si stanchi mai di leggere le tue espressioni.
Ti meriti un amore che ti ascolti quando canti,
che ti appoggi quando fai il ridicolo,
che rispetti il tuo essere libera,
che ti accompagni nel tuo volo,
che non abbia paura di cadere.
Ti meriti un amore che ti spazzi via le bugie,
che ti porti l’illusione,
il caffè
e la poesia.


Frida Kahlo

"Amami”   La preghiera indiana sull’amore

Amami ma non fermare le mie ali se vorrò volare, 
non chiudermi in una gabbia per paura di perdermi. 
Amami con l’umile certezza del tuo Amore ed io non andrò più via. 
E se sarò in un cielo lontano ritroverò la strada del tuo pensiero, 
e se sarai con me ti insegnerò a volare 
e tu mi insegnerai a restare. 
Amami con ogni parte di te perché io possa appartenere all’anima e non al corpo quando ti abbraccerò o bacerò le tue forme. 
Amami senza nascondere quella tenerezza che ti fa bambina sulle mie pupille e non vergognarti mai se ti dirò “Ti amo”. 
Amami qualunque sia l’aspetto che assumerà il nostro Amore o il luogo in cui ci scambieremo un altro sguardo. 
Amami anche se ti sembrerà selvaggia la mia passione ed i miei modi a volte risulteranno bruschi o forti. 
Amami per quello che sono ed io ti seguirò lungo i passi della dolcezza e proteggerò dal mondo la tua fragilità. 
Amami e accompagnerò ogni tuo gesto senza bisogno di parole. 
Amami un po’ di più di quanto non chiederò al tuo cuore perché lo stesso farò io camminandoti accanto. 
Amami e non guardare il mio aspetto trasandato o le mie forme che non sanno di bellezza 
non indugiare sul colore dei miei occhi o su ciò che mi fa grande o piccolo o debole o forte. 
Amami per ciò che vedi ad occhi chiusi o per quello che senti quando resto in silenzio nelle tue mani stretto,  amami per questo e non per le cose che la gente dirà di me. 
Amami perché lo vivi il nostro Amore e non farne un bisogno per non sentirti sola e nemmeno per convincerti che sarà per sempre. 
Amami ogni giorno come se davvero fosse unico ma non l’ultimo. 
Solo così ogni volta conoscerai la mia bellezza. 

GIORGIO COPPOLA

 

Di tutto quel vento

che bussava placido alla porta

ora resta un odore acre di nostalgia.

Di quel vento che gonfiava le giacche,

ci portiamo addosso l’erba umida di un fresco mattino.

Per quel sole che raccontava il silenzio dei giorni,

ora brilla una strana primavera

d’occhi indiscreti a leggere un dolore.

Di tutto quel vento

che ti portò d’improvviso qui,

tra il cielo e la terra

restano a galleggiare le nostre ore

inchiodate al bivio di un sogno.

 

Gg. Cc. 22 aprile 22 (A kobe)

 

Fotografie da Bucha

 

Si muore così

da qualche parte del mondo.

con le mani legate

dietro una schiena nuda,

un respiro gettato in una pozzanghera,

una fede stretta nell’ultimo attimo.

Da qualche parte del mondo

si muore anche così,

pedalando all’inferno,

con la faccia nella melma,

sulle labbra la preghiera ad un Dio distratto,

e rimanendo soli, chiusi in un tempo che non si appartiene più.

Si vive così

da questa parte del mondo.

Guardando fotografie.

 

GgCc

 

Giorgio Coppola (Napoli, 29 maggio 1969) è avvocato specializzato in diritto di famiglia, vicecoordinatore della Commissione Famiglia del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Napoli. Nel 2014 ha pubblicato la raccolta di poesie Dell'amore del destino e di altri inganni (Albatros). Poeta e scrittore sensibile. Oltre ad essere un ottimo e grande avvocato

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una delle tante definizione di "poeta"

Sfogliando un vecchio manuale di poetica del 1856 di Giovanni Gherardini:

 "Chiamasi poeta chi possiede la facoltà di concepire l'idea del Bello e di renderlo sensibile ad altrui”.

Quindi la poesia, considerata come produzione del poeta, altro non è che la manifestazione del Bello

da esso lui concepito.

Il fine cui tende la poesia è di signoreggiare il cuore e la fantasia, ovvero l'una e l'altra insieme,

rendendo sensibile ad altrui il Bello concepito dal poeta.

Il mezzo con cui la poesia ottiene questo fine è il diletto.

Così definita la poesia, si vede che ella regna su tutte le belle arti e che si può trovare

in tutte le opere della parola, quindi è piaciuto a taluno, per contrapposto di chiamar 'prosaiche'

quelle composizioni di qual arte si sia, senza fuoco, senza sangue, senz'anima che sono frutto

dell'esperienza più presto che dell'intero sentimento." -

 

di Marilena Tassinari

un amico, un conoscente di cui non conoscevo la vena e la sensibilità poetica:

DONATO AMBROSANIO

 

Come il primo caldo di maggio

alcuni sorrisi ricordano casa;

ed il cuore ha occhi e memoria

ma non c’è più nulla da ascoltare

se non la voce

o quel che ne rimane

che ti suggerisce di

mettere un piede dopo l’altro

e non fermarti,

perché là in fondo

dove il mare incontra il cielo

lì è il destino delle anime belle

destinate a rivedersi

in un mondo che è un sogno

dove “dolore” è solo una parola.

 

 

È inesistente

con te

tutto ciò che non sia profumato,

che non sia ordine.

La schiera dei pensieri

che procedono barbari

scappano al chiarore della tua Luna.

L’albero ha il sole,

il mio cuore il tuo sorriso.

Dei frutti caduti maturi

se ne cibano gli animali

venuti a bere dalle tue mani gentili.

La delicatezza della rugiada

che bacia lenta

ogni foglia come se fosse amore eterno

è infinita nelle tue mani

che accarezzano le mie cicatrici.

 

 

L’ odore della stanza di mia madre

sa di fiori freschi e

di lenzuola pulite.

Ed ora che non c’è

nulla è cambiato,

solo il letto, ormai inviolato per metà.

Dio, mi devi l’amore di mia madre.

Un amore tanto forte che

nulla ha potuto

la violenza della morte.

Come le api sul fiore,

così due farfalle

si posano sul freddo marmo

come a dire:

“Ella diede così tanto amore

che ancora ne profuma e noi ne godiamo”.

Ed anche la lapide,

bugiarda,

dice:

“Visse.”

Bugiarda.

Chi amò tanto in vita

vive sempre

al di qua della morte.

 

 

 

"Alla mia danzatrice (Nuda)"

 

 

Negra è la mia calda voce d’Africa,
terra d’enigmi e frutto di ragione.

Danza per me nuda, per la gioia del mio sorriso.
Per la bellezza che offre allo sguardo
il tuo seno che nasconde segrete virtù.

Danza per l’aurea leggenda di notti infinite,
per i tempi nuovi e i secolari ritmi della nostra Africa.
Infinito trionfo di sogni e di stelle,
amante docile alla stretta dei segreti ritmi.

Danza per la vertigine del brivido dell'amore,
per la magia del Cuore che il mondo esprime.

Danza nuda perché intorno a me bruciano i miti,
si incendiano i miei sensi, e solo se entrerai in me
il fuoco potrà spegnersi in grandi esplosioni di gioia
nel cielo dei tuoi pensieri.

Danza nuda,
fammi accarezzare i tuoi seni,
fammi abbracciare le tue nudità
deve arde la fiamma verticale dell'Amore.

Sei il viso dell’iniziato
Che sacrifica la follia ai piedi dell’albero guardiano.

Idea del Tutto.
Sei voce dell’Antico all'assalto delle chimere.

Sei il Verbo che esplode
in razzi miracolosi sulle rive dell’oblio.

 

(Testo liberamente tradotto da un canto tradizionale Igbo,

Nigeria del Sud)

 

KHALIL GIBRAN

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CENNI BIOGRAFICI

 

Khalil Gibran nacque il 6 gennaio 1883 a Bisherri, in Libania.

Emigrò con i suoi genitori a Boston nel 1895 e, più tardi, si stabilì a New York.

Poeta, filosofo, pittore, Khalil Gibran fu considerato nel mondo arabo il genio della sua epoca.

Ma la sua fama si diffuse ben presto oltre i confini del Medio e Vicino Oriente:

le sue opere furono tradotte in più di venti lingue e i suoi disegni e dipinti furono esposti nelle grandi capitali del mondo.

Morì il 10 Aprile 1931, dopo aver scritto dei poemi e delle meditazioni che ebbero in seguito un'enorme risonanza in Occidente e in Oriente.

I suoi testi esprimono una forte spiritualità e rivelano una profonda saggezza, spingendo il lettore verso la scoperta del suo io profondo e verso una visione filosofica della vita e dei sentimenti umani.

 

“Nulla impedirà al sole di sorgere ancora, nemmeno la notte più buia. Perché oltre la nera cortina della notte c'è un'alba che ci aspetta.”

Farò della mia anima uno scrigno
per la tua anima,
del mio cuore una dimora
per la tua bellezza,
del mio petto un sepolcro
per le tue pene.
Ti amerò come le praterie amano la primavera,
e vivrò in te la vita di un fiore
sotto i raggi del sole.
Canterò il tuo nome come la valle
canta l'eco delle campane;
ascolterò il linguaggio della tua anima
come la spiaggia ascolta
la storia delle onde.

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frasi celebri - aforismi

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CESARE PAVESE

Quale mondo giaccia

al di là di questo mare non so,

​ma ogni mare ha un'altra riva,

e arriverò.

 

16 febbraio 1936  - Cesare Pavese

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BIOGRAFIA

Cesare Pavese (Santo Stefano Belbo, 9 settembre 1908 – Torino, 27 agosto 1950) 
è stato uno scrittore, poeta, traduttore e critico letterario italiano.

Cesare Pavese nacque il 9 settembre 1908 a Santo Stefano Belbo, un paesino delle Langhe 
situato nella provincia di Cuneo,  presso il cascinale di San Sebastiano, 
dove la famiglia soleva trascorrere le estati.
Il padre, Eugenio Pavese, originario anch'egli di Santo Stefano Belbo, 
era cancelliere presso il Palazzo di Giustizia di Torino, dove risiedeva con la moglie, 
Fiorentina Consolina Mesturini, proveniente da una famiglia di abbienti commercianti.

 

Cesare Pavese è stato uno dei più importanti poeti, scrittori e intellettuali italiano del XX secolo. 
Visse fin dall’infanzia non pochi problemi familiari, segnati in particolare 
dalla morte in giovane età del padre, dei fratelli e dai problemi di salute della madre.

Nel periodo tra le due guerre mondiali, divenne attivista del gruppo antifascista 
“Giustizia e Libertà” e proprio in quanto antifascista fu condannato a tre anni di confino. 
Nella sua vita visse diverse delusioni amorose che lo portarono alla depressione e
 alla morte prematura, nel 1950, dopo un’overdose di sonnifero.

P O E S I E

Verrà la morte e avrà i tuoi occhi


Verrà la morte e avrà i tuoi occhi
questa morte che ci accompagna
dal mattino alla sera, insonne,
sorda, come un vecchio rimorso
o un vizio assurdo. I tuoi occhi
saranno una vana parola,
un grido taciuto, un silenzio.
Così li vedi ogni mattina
quando su te sola ti pieghi
nello specchio. O cara speranza,
quel giorno sapremo anche noi
che sei la vita e sei il nulla.
Per tutti la morte ha uno sguardo.
Verrà la morte e avrà i tuoi occhi.
Sarà come smettere un vizio,
come vedere nello specchio
riemergere un viso morto,
come ascoltare un labbro chiuso.
Scenderemo nel gorgo muti.

 

Tu non sai le colline


Tu non sai le colline
dove si è sparso il sangue.
Tutti quanti fuggimmo
tutti quanti gettammo
l’arma e il nome. Una donna
ci guardava fuggire.
Uno solo di noi
si fermò a pugno chiuso,
vide il cielo vuoto,
chinò il capo e morì
sotto il muro, tacendo.
Ora è un cencio di sangue
il suo nome. Una donna
ci aspetta alle colline.

 

Ascolteremo nella calma stanca


Ascolteremo nella calma stanca
la musica remota
della nostra tremenda giovinezza
che in un giorno lontano
si curvò su se stessa
e sorrideva come inebriata
dalla troppa dolcezza e dal tremore.
Sarà come ascoltare in una strada
nella divinità della sera
quelle note che salgono slegate
lente come il crepuscolo
dal cuore di una casa solitaria.
Battiti della vita,
spunti senz’armonia,
ma che nell’ansia tesa del tuo amore
ci crearono, o anima,
le tempeste di tutte le armonie.
Ché da tutte le cose
siamo sempre fuggiti
irrequieti e insaziati
sempre portando nel cuore
l’amore disperato
verso tutte le cose.

 

Paternità

 

Fantasia della donna che balla, e del vecchio
che è suo padre e una volta l’aveva nel sangue
e l’ha fatta una notte, godendo in un letto, bel nudo.
Lei s’affretta per giungere in tempo a svestirsi,
e ci sono altri vecchi che attendono. Tutti
le divorano, quando lei salta a ballare, la forza
delle gambe con gli occhi, ma i vecchi ci tremano.
Quasi nuda è la giovane. E i giovani guardano
con sorrisi, e qualcuno vorrebbe esser nudo.
Sembran tutti suo padre i vecchiotti entusiasti
e son tutti, malfermi, un avanzo di corpo
che ha goduto altri corpi. Anche i giovani un giorno
saran padri, e la donna è per tutti una sola.
È accaduto in silenzio. Una gioia profonda
prende il buio davanti alla giovane viva.
Tutti i corpi non sono che un corpo, uno solo
che si muove inchiodando gli sguardi di tutti.
Questo sangue, che scorre le membra diritte
della giovane, è il sangue che gela nei vecchi;
e suo padre che fuma in silenzio, a scaldarsi,
lui non salta, ma ha fatto la figlia che balla.
C’è un sentore e uno scatto nel corpo di lei
che è lo stesso nel vecchio, e nei vecchi. In silenzio
fuma il padre e l’attende che ritorni, vestita.
Tutti attendono, giovani e vecchi, e la fissano;
e ciascuno, bevendo da solo, ripenserà a lei.

 

I gatti lo sapranno


Ancora cadrà la pioggia
sui tuoi dolci selciati,
una pioggia leggera
come un alito o un passo.
Ancora la brezza e l’alba
fioriranno leggere
come sotto il tuo passo,
quando tu rientrerai.
Tra fiori e davanzali
i gatti lo sapranno.
Ci saranno altri giorni,
ci saranno altre voci.
Sorriderai da sola.
I gatti lo sapranno.
Udrai parole antiche,
parole stanche e vane
come i costumi smessi
delle feste di ieri.
Farai gesti anche tu.
Risponderai parole −
viso di primavera,
farai gesti anche tu.
I gatti lo sapranno,
viso di primavera;
e la pioggia leggera,
l’alba color giacinto,
che dilaniano il cuore
di chi piú non ti spera,
sono il triste sorriso
che sorridi da sola.
Ci saranno altri giorni,
altre voci e risvegli.
Soffriremo nell’alba,
viso di primavera.

 

Ti ho sempre soltanto veduta


Ti ho sempre soltanto veduta,
senza parlarti mai,
nei tuoi istanti più belli.
Ma ho l’anima ormai tanto tesa,
schiantata dalla tua figura,
che non trovo più pace
al suo brivido atroce.
E non posso parlarti,
nemmeno avvicinarmi,
ché cadrebbero tutti i miei sogni.
Oh se tale è il tremore orribile
che ho nell’anima questa notte,
e non ti conoscerò mai,
che cosa diverrebbe il mio povero cuore
sotto l’urto del sangue,
alla sublimità di te?
Se ora mi par di morire,
che vertigine folle,
che palpiti moribondi,
che urli di voluttà e di languore
mi darebbe la tua realtà?
Ma io non posso parlarti,
e nemmeno avvicinarmi:
nei tuoi istanti più belli
ti ho sempre soltanto veduta,
sempre soltanto sognata.

 

Mattino


La finestra socchiusa contiene un volto
sopra il campo del mare. I capelli vaghi
accompagnano il tenero ritmo del mare.
Non ci sono ricordi su questo viso.
Solo un’ombra fuggevole, come di nube.
L’ombra è umida e dolce come la sabbia
di una cavità intatta, sotto il crepuscolo.
Non ci sono ricordi. Solo un sussurro
che è la voce del mare fatta ricordo.
Nel crepuscolo l’acqua molle dell’alba
che s’imbeve di luce, rischiara il viso.
Ogni giorno è un miracolo senza tempo,
sotto il sole: una luce salsa l’impregna
e un sapore di frutto marino vivo.
Non esiste ricordo su questo viso.
Non esiste parola che lo contenga
o accomuni alle cose passate. Ieri,
dalla breve finestra è svanito come
svanirà tra un istante, senza tristezza
né parole umane, sul campo del mare.

 

Tu sei per me una creatura triste


Tu sei per me una creatura triste,
un fiore labile di poesia,
che, nell’istante stesso che lo godo
e tento inebriarmene,
sento fuggire lontano
tanto lontano,
per la miseria dell’anima mia,
la mia miseria triste.
Quando ti stringo pazzamente al cuore
e ti suggo la bocca,
a lungo, senza posa,
sono triste, bambina,
perché sento il mio cuore tanto stanco
di amarti cosí male.
Tu mi dài la tua bocca
e insieme ci sforziamo di godere
il nostro amore che sarà mai lieto
perché l’anima in noi è troppo stanca
dei sogni già sognati.
Ma sono io sono io il vile,
e tu sei tanto in alto
che, quando penso a te,
non mi resta che struggermi d’amore
per quel poco di gioia che mi dài,
non so se per capriccio o per pietà.
La tua bellezza è una bellezza triste
quale avrei mai osato di sognare,
ma, come tu mi hai detto, è solo un sogno.
Quando ti parlo le cose piú dolci
e ti stringo al mio cuore
e tu non pensi a me,
hai ragione, bambina:
io sono triste triste e tanto vile.
Ecco, tu sei per me
null’altro che una fragile illusione
dai grandi occhi di sogno,
che per un’ora mi si stringe al cuore
e mi ricolma tutto
di cose dolci, piene di rimpianto.
Cosí mi accade quando stancamente
mi struggo a infondere nei versi lievi
un mio spasimo triste.
Un fiore labile di poesia,
nulla di piú, mio amore.
Ma tu non sai, bambina,
e mai saprai ciò che mi fa soffrire.
Continuerò, piccolo fiore biondo,
che hai già tanto sofferto nella vita,
a contemplarti il viso che ti piange
anche quando sorride
– oh la dolcezza triste del tuo viso!
non saprai mai, bambina –
continuerò a adorare accanto a te
le tue piccole membra melodiose
che han la dolcezza della primavera
e son tanto struggenti e profumate
che io quasi impazzisco
al pensiero che un altro le amerà
stringendole al suo corpo.
Continuerò a adorarti,
e a baciarti e a soffrire,
finché tu un giorno mi dirai che tutto
dovrà essere finito.
E allora tu non sarai piú lontana
e non mi sentirò piú stanco il cuore,
ma urlerò dal dolore
e ribacerò in sogno
e mi stringerò al petto
l’illusione svanita.
E scriverò per te,
per il tuo ricordo straziante
pochi versi dolenti
che tu non leggerai piú.
Ma a me staranno atroci
inchiodati nel cuore
per sempre.

 

L’amico che dorme


Che diremo stanotte all’amico che dorme?
La parola più tenue ci sale alle labbra
dalla pena più atroce. Guarderemo l’amico,
le sue inutili labbra che non dicono nulla,
parleremo sommesso.
La notte avrà il volto
dell’antico dolore che riemerge ogni sera
impassibile e vivo. Il remoto silenzio
soffrirà come un’anima, muto, nel buio.
Parleremo alla notte che fiata sommessa.
Udiremo gli istanti stillare nel buio
al di là delle cose, nell’ansia dell’alba,
che verrà d’improvviso incidendo le cose
contro il morto silenzio. L’inutile luce
svelerà il volto assorto del giorno. Gli istanti
taceranno. E le cose parleranno sommesso.

 

Marzo


Io sono Marzo che vengo col vento
col sole e l’acqua e nessuno contento;
vo’ pellegrino in digiuno e preghiera
cercando invano la Primavera.
Di grandi Santi m’adorno e mi glorio:
Tommaso il sette e poi il grande Gregorio;
con Benedetto la rondin tornata
saluta e canta la Santa Annunziata.
Primavera
Sarà un volto chiaro.
S’apriranno le strade
sui colli di pini
e di pietra…
I fiori spruzzati
di colore alle fontane
occhieggeranno come
donne divertite: Le scale
le terrazze le rondini
canteranno nel sole.

 

Anche la notte ti somiglia


Anche la notte ti somiglia,
la notte remota che piange
muta, dentro il cuore profondo,
e le stelle passano stanche.
Una guancia tocca una guancia –
è un brivido freddo, qualcuno
si dibatte e t’implora, solo,
sperduto in te, nella tua febbre.
La notte soffre e anela l’alba,
povero cuore che sussulti.
O viso chiuso, buia angoscia,
febbre che rattristi le stelle,
c’è chi come te attende l’alba
scrutando il tuo viso in silenzio.
Sei distesa sotto la notte
come un chiuso orizzonte morto.
Povero cuore che sussulti,
un giorno lontano eri l’alba.

 

Semplicità


L’uomo solo – che è stato in prigione – ritorna in prigione.
ogni volta che morde in un pezzo di pane.
In prigione sognava le lepri che fuggono
sul terriccio invernale. Nella nebbia d’inverno
l’uomo vive tra muri di strade, bevendo
acqua fredda e morendo in un pezzo di pane.
Uno crede che dopo rinasca la vita,
che il respiro si calmi, che ritorni l’inverno
con l’odore del vino nella calda osteria,
e il buon fuoco, la stalla, e le cene. Uno crede,
fin che è dentro uno crede. Si esce fuori una sera,
e le lepri le han prese e le mangiano al caldo
gli altri, allegri. Bisogna guardarli dai vetri.
L’uomo solo osa entrare per bere un bicchiere
quando proprio si gela, e contempla il suo vino:
il colore fumoso, il sapore pesante.
Morde il pezzo di pane, che sapeva di lepre
in prigione, ma adesso non sa più di pane
né di nulla. E anche il vino non sa che di nebbia.
L’uomo solo ripensa a quei campi, contento
di saperli già arati. Nella sala deserta
sottovoce, si prova a cantare. Rivede
lungo l’argine il ciuffo di rovi spogliati
che in agosto fu verde. Dà un fischio alla cagna.
E compare la lepre e non hanno più freddo.

 

Donne appassionate


Le ragazze al crepuscolo scendono in acqua,
quando il mare svanisce, disteso. Nel bosco
ogni foglia trasale, mentre emergono caute
sulla sabbia e si siedono a riva. La schiuma
fa i suoi giochi inquieti, lungo l’acqua remota.
Le ragazze han paura delle alghe sepolte
sotto le onde, che afferrano le gambe e le spalle:
quant’è nudo, del corpo. Rimontano rapide a riva
e si chiamano a nome, guardandosi intorno.
Anche le ombre sul fondo del mare, nel buio,
sono enormi e si vedono muovere incerte,
come attratte dai copi che passano. Il bosco
è un rifugio tranquillo, nel sole calante,
più che i greto, ma piace alle scure ragazze
star sedute all’aperto, nel lenzuolo raccolto.
Stanno tutte accosciate, serrando il lenzuolo
alle gambe, e contemplano il mare disteso
come un prato al crepuscolo. Oserebbe qualcuna
ora stendersi nuda in un prato? Dal mare
balzerebbero le alghe, che sfiorano i piedi,
a ghermire e ravvolgere il corpo tremante.
Cl son occhi nel mare, che traspaiono a volte.
Quell’ignota straniera, che nuotava di notte
sola e nuda, nel buio quando muta la luna,
è scomparsa una notte e non torna mai più.
Era grande e doveva esser bianca abbagliante
perché gli occhi, dal fondo del mare, giungessero a lei.

 

Sempre vieni dal mare


Sempre vieni dal mare
e ne hai la voce roca,
sempre hai occhi segreti
d’acqua viva tra i rovi,
e fronte bassa, come
cielo basso di nubi.
Ogni volta rivivi
come una cosa antica
e selvaggia, che il cuore
già sapeva e si serra.
Ogni volta è uno strappo,
ogni volta è la morte.
Noi sempre combattemmo.
Chi si risolve all’urto
ha gustato la morte
e la porta nel sangue.
Come buoni nemici
che non s’odiano più
noi abbiamo una stessa
voce, una stessa pena
e viviamo affrontati
sotto povero cielo.
Tra noi non insidie,
non inutili cose –
combatteremo sempre.
Combatteremo ancora,
combatteremo sempre,
perché cerchiamo il sonno
della morte affiancati,
e abbiamo voce roca
fronte bassa e selvaggia
e un identico cielo.
Fummo fatti per questo.
Se tu od io cede all’urto,
segue una notte lunga
che non è pace o tregua
e non è morte vera.
Tu non sei più. Le braccia
si dibattono invano.
Fin che ci trema il cuore.
Hanno detto un tuo nome.
Ricomincia la morte.
Cosa ignota e selvaggia
sei rinata dal mare.

 

Estate


È riapparsa la donna dagli occhi socchiusi
e dal corpo raccolto, camminando per strada.
Ha guardato diritto tendendo la mano,
nell’immobile strada. Ogni cosa è riemersa.
Nell’ímmobile luce dei giorno lontano
s’è spezzato il ricordo. La donna ha rialzato
la sua semplice fronte, e lo sguardo d’allora
è riapparso. La mano si è tesa alla mano
e la stretta angosciosa era quella d’allora.
Ogni cosa ha ripreso i colori e la vita
allo sguardo raccolto, alla bocca socchiusa.
È tornata l’angoscia dei giorni lontani
quando tutta un’immobile estate improvvisa
di colori e tepori emergeva, agli sguardi
di quegli occhi sommessi. È tornata l’angoscia
che nessuna dolcezza di labbra dischiuse
può lenire. Un immobile cielo s’accoglie
freddamente, in quegli occhi.
Fra calmo il ricordo
alla luce sommessa dei tempo, era un docile
moribondo cui già la finestra s’annebbia e scompare.
Si è spezzato il ricordo. La stretta angosciosa
della mano leggera ha riacceso i colori
e l’estate e i tepori sotto il viviclo cielo.
Ma la bocca socchiusa e gli sguardi sommessi
non dan vita che a un duro inumano silenzio.

 

Mania di solitudine


Mangio un poco di cena seduto alla chiara finestra.
Nella stanza è già buio e si vede nel cielo.
A uscir fuori, le vie tranquille conducono
dopo un poco, in aperta campagna.
Mangio e guardo nel cielo – chi sa quante donne
stan mangiando a quest’ora – il mio corpo è tranquillo;
il lavoro stordisce il mio corpo e ogni donna.
Fuori, dopo la cena, verranno le stelle a toccare
sulla larga pianura la terra. Le stelle son vive,
ma non valgono queste ciliege, che mangio da solo.
Vedo il cielo, ma so che fra i tetti di ruggine
qualche lume già brilla e che, sotto, si fanno rumori.
Un gran sorso e il mio corpo assapora la vita
delle piante e dei fiumi e si sente staccato da tutto.
Basta un po’ di silenzio e ogni cosa si ferma
nel suo luogo reale, così com’è fermo il mio corpo.
Ogni cosa è isolata davanti ai miei sensi,
che l’accettano senza scomporsi: un brusío di silenzio.
Ogni cosa, nel buio, la posso sapere
come so che il mio sangue trascorre le vene.
La pianura è un gran scorrere d’acque tra l’erbe,
una cena di tutte le cose. Ogni pianta e ogni sasso
vive immobile. Ascolto i miei cibi nutrirmi le vene
di ogni cosa che vive su questa pianura.
Non importa la notte. Il quadrato di cielo
mi susurra di tutti i fragori, e una stella minuta
si dibatte nel vuoto, lontano dai cibi,
dalle case, diversa. Non basta a se stessa,
e ha bisogno di troppe compagne. Qui al buio, da solo,
il mio corpo è tranquillo e si sente padrone.

 

ALDA MERINI

Biografia di Alda Merini

 

Seconda di tre figli, Alda Merini nasce a Milano il 21 marzo 1931. 
La sua famiglia è modesta, la madre è casalinga e il padre lavora 
in una compagnia di assicurazioni. Fin da giovanissima si appassionò 
alla letteratura ma, non potendo iscriversi al liceo classico perché 
respinta all'esame di italiano, frequentò un istituto professionale, 
pubblicando però a 15 anni la raccolta di poesia La presenza di Orfeo. 
Intanto coltiva anche la sua passione per il pianoforte.
Nonostante il giudizio negativo dato dalla scuola, Alda attira subito
 l'attenzione dei critici e conosce personalità notevoli della cultura
 milanese dell'epoca, introdotta da Silvana Rovelli, cugina di un'altra poetessa, Ada Negri.
In questi ambienti, adolescente, incontra il suo primo grande amore, Giorgio Manganelli, che sarà per lei anche un maestro di stile e di composizione.
Nel '47 viene colpita dai primi attacchi di una malattia mentale che la accompagnerà per tutta la vita, facendo di lei la poetessa pazza, sempre al limite fra grandezza letteraria e follia.
L'ammirazione che Montale nutre per lei lo porta a consigliare di includere alcune delle sue liriche nella raccolta Poetesse del Novecento, pubblicata nel 1950.
Fra le sue frequentazioni c'è anche Quasimodo, a cui dedicherà delle poesie, 
definendolo un padre, un grande poeta, con il quale fare "discorsi accorati e delusi, confinati nello spazio come astronauti sulla stessa luna".
Nel 1953 si sposa con un panettiere e nel 1955 nasce la prima delle quattro figlie. Alterna momenti di lucidità e di internamento in manicomio, di cui uno molto lungo fra il 1965 e il 1972. Nel 1979, durante un periodo di salute, inizia a scrivere la sua opera maggiore La terra santa, in cui entra prepotente la sua esperienza del manicomio.
Nel 1981 muore il marito e inizia un periodo difficile sia per la sua vita familiare, sia per quella professionale, dato che le sue liriche vengono snobbate dall'editoria italiana. 
Nel 1983 si risposa con un poeta tarantino, molto più giovane di lei, 
con il quale aveva tenuto una lunga corrispondenza.
La lucidità a volte l'abbandona e sperimenta altri ricoveri, raccontanti nel testo in prosa L'altra verità. Diario di una diversa.
Nel 1986 torna a Milano, che non abbandonerà più, e ricomincia a comporre: 
La vita facile, La vita felice, Le parole di Alda Merini, Folle, folle, folle d'amore per te, Nel cerchio di un pensiero, Le briglie d'oro e altre poesie ispirate sempre alla sua vita.
La cultura italiana la ama e insieme la esclude. Il cantante Lucio Dalla, 
nel 2007 tiene un concerto nella Basilica di Assisi, ispirato ai versi della poetessa e questa occasione rafforza il legame fra Merini e i Francescani, che riconoscono in lei la disponibilità verso il piccolo, la ricerca di senso e l'apertura agli altri.
In questi anni anche il pubblico televisivo la conosce, aumentano le sue apparizioni in video e televisione, con la voce trasformata dal fumo e pacata. 
Continua però a vivere in povertà, per scelta, accudita dai servizi sociali 
comunali che le fornivano i pasti.
Muore nel 2009 per un tumore osseo.

P O E S I E

Sono nata il ventuno a primavera


Sono nata il ventuno a primavera
ma non sapevo che nascere folle,
aprire le zolle
potesse scatenar tempesta.
Così Proserpina lieve
vede piovere sulle erbe,
sui grossi frumenti gentili
e piange sempre la sera.
Forse è la sua preghiera.

 

L’amore


L’amore è sofferenza,
pianto, gioia, sorriso.
L’amore è felicità,
tristezza e tormento.
Non si ama con il cuore,
si ama con l’anima
che si impregna di storia.
Non si ama se non si soffre
e non si ama
se non si ha paura di perdere.
Ma quando ami vivi,
forse male, forse bene, ma vivi.
Allora muori
quando smetti di amare,
scompari quando non sei più amato.
Se l’amore ti ferisce,
cura le tue cicatrici
e credici, sei vivo…
Perchè vivi per chi ami
e per chi ti ama.

 

I poeti lavorano di notte


I poeti lavorano di notte
quando il tempo non urge su di loro,
quando tace il rumore della folla
e termina il linciaggio delle ore.
I poeti lavorano nel buio
come falchi notturni od usignoli
dal dolcissimo canto
e temono di offendere Iddio.
Ma i poeti, nel loro silenzio
fanno ben più rumore
di una dorata cupola di stelle.

 

Sorridi


Sorridi donna
sorridi sempre alla vita
anche se lei non ti sorride.
Sorridi agli amori finiti
sorridi ai tuoi dolori
sorridi comunque.
Il tuo sorriso sarà
luce per il tuo cammino
faro per naviganti sperduti.
Il tuo sorriso sarà
un bacio di mamma,
un battito d’ali,
un raggio di sole per tutti.

 

Il mio passato


Spesso ripeto sottovoce
che si deve vivere di ricordi solo
quando mi sono rimasti pochi giorni.
Quello che è passato
è come se non ci fosse mai stato.
Il passato è un laccio che
stringe la gola alla mia mente
e toglie energie per affrontare il mio presente.
Il passato è solo fumo
di chi non ha vissuto.
Quello che ho già visto
non conta più niente.
Il passato ed il futuro
non sono realtà ma solo effimere illusioni.
Devo liberarmi del tempo
e vivere il presente giacché non esiste altro tempo
che questo meraviglioso istante.

 

A tutte le donne


Fragile, opulenta donna, matrice del paradiso
sei un granello di colpa
anche agli occhi di Dio
malgrado le tue sante guerre
per l’emancipazione.
Spaccarono la tua bellezza
e rimane uno scheletro d’amore
che però grida ancora vendetta
e soltanto tu riesci
ancora a piangere,
poi ti volgi e vedi ancora i tuoi figli,
poi ti volti e non sai ancora dire
e taci meravigliata
e allora diventi grande come la terra
e innalzi il tuo canto d’amore.

 

Io non ho bisogno di denaro


Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti,
di parole, di parole scelte sapientemente,
di fiori detti pensieri,
di rose dette presenze,
di sogni che abitino gli alberi,
di canzoni che facciano danzare le statue,
di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti…
Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia la pesantezza delle parole,
che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

 

Io sono folle


Io sono folle, folle,
folle di amore per te.
Io gemo di tenerezza
perché sono folle, folle,
perché ti ho perduto.
Stamane il mattino era sì caldo
che a me dettava questa confusione,
ma io ero malata di tormento
ero malata di tua perdizione.

 

Ho conosciuto in te le meraviglie


Ho conosciuto in te le meraviglie
meraviglie d’amore sì scoperte
che parevano a me delle conchiglie
ove odoravo il mare e le deserte
spiagge corrive e lì dentro l’amore
mi son persa come alla bufera
sempre tenendo fermo questo cuore
che (ben sapevo) amava una chimera.

 

Sono solo una fanciulla


Sono folle di te, amore
che vieni a rintracciare
nei miei trascorsi
questi giocattoli rotti delle mie parole.
Ti faccio dono di tutto
se vuoi,
tanto io sono solo una fanciulla
piena di poesia
e coperta di lacrime salate,
io voglio solo addormentarmi
sulla ripa del cielo stellato
e diventare un dolce vento
di canti d’amore per te.

 

Quelle come me


Quelle come me regalano sogni,

anche a costo di rimanerne prive.
Quelle come me donano l’anima,
perché un’anima da sola

è come una goccia d’acqua nel deserto.
Quelle come me tendono la mano

ed aiutano a rialzarsi,
pur correndo il rischio di cadere a loro volta.
Quelle come me guardano avanti,
anche se il cuore rimane sempre

qualche passo indietro.
Quelle come me cercano un senso all’esistere e,

quando lo trovano,
tentano d’insegnarlo a chi sta solo sopravvivendo.
Quelle come me quando amano, amano per sempre.
e quando smettono d’amare è solo perché
piccoli frammenti di essere giacciono

inermi nelle mani della vita.
Quelle come me inseguono un sogno
quello di essere amate per ciò che sono
e non per ciò che si vorrebbe fossero.
Quelle come me girano il mondo alla ricerca

di quei valori che, ormai,
sono caduti nel dimenticatoio dell’anima.
Quelle come me vorrebbero cambiare,
ma il farlo comporterebbe nascere di nuovo.
Quelle come me urlano in silenzio,
perché la loro voce non si confonda con le lacrime.
Quelle come me sono quelle cui tu riesci

sempre a spezzare il cuore,
perché sai che ti lasceranno andare, senza chiederti nulla.
Quelle come me amano troppo, pur sapendo che, in cambio,
non riceveranno altro che briciole.
Quelle come me si cibano di quel poco e su di esso,
purtroppo, fondano la loro esistenza.
Quelle come me passano inosservate,
ma sono le uniche che ti ameranno davvero.
Quelle come me sono quelle che, nell’autunno della tua vita,
rimpiangerai per tutto ciò che avrebbero potuto darti
e che tu non hai voluto…

 

GIANNI RODARI

Giovanni Francesco Rodari, in arte Gianni Rodari, 
nacque il 23 ottobre 1920 a Omegna, sul lago d'Orta, 
dove i genitori, originari della Val Cuvia (Varese), 
si erano trasferiti per lavoro. Giuseppe, il padre, 
sposò in seconde nozze Maddalena Aricocchi, la madre di Gianni. 
Giuseppe era proprietario di una panetteria in via Mazzini; 
Maddalena, invece, lavorava come commessa nella bottega paterna. 
Gianni era il secondo dei tre figli del padre: il suo fratello preferito era Cesare,
 il più piccolo. Con il maggiore, Mario, nato dalle prime nozze del padre,
 i rapporti erano invece piuttosto freddi, forse per la grande differenza di età. 
Il giovane Rodari era un bambino di corporatura minuta, e piuttosto schivo:
 al contrario dei fratelli, che erano vivaci e socievoli, legava poco con i suoi coetanei. 

Dopo aver conseguito il diploma magistrale, per alcuni anni ha fatto l’insegnante. 
Al termine della Seconda guerra mondiale ha intrapreso la carriera giornalistica, 
che lo ha portato a collaborare con numerosi periodici, tra cui «L’Unità», il «Pioniere», 
«Paese Sera». 
A partire dagli anni Cinquanta ha iniziato a pubblicare anche le sue opere per l’infanzia, 
che hanno ottenuto fin da subito un enorme successo di pubblico e di critica. 
I suoi libri hanno avuto innumerevoli traduzioni e hanno meritato diversi riconoscimenti, 
fra cui, nel 1970, il prestigioso premio «Hans Christian Andersen», considerato il «Nobel» 
della letteratura per l’infanzia.

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POESIE

Alla formica

Chiedo scusa alla favola antica,
se non mi piace l’avara formica.
Io sto dalla parte della cicala
che il più bel canto non vende, regala.
 

Il cielo è di tutti

Qualcuno che la sa lunga
mi spieghi questo mistero:
il cielo è di tutti gli occhi
di ogni occhio è il cielo intero.
È mio, quando lo guardo.
È del vecchio, del bambino,
del re, dell’ortolano,
del poeta, dello spazzino.
Non c’è povero tanto povero
che non ne sia il padrone.
Il coniglio spaurito
ne ha quanto il leone.
Il cielo è di tutti gli occhi,
ed ogni occhio, se vuole,
si prende la luna intera,
le stelle comete, il sole.
Ogni occhio si prende ogni cosa
e non manca mai niente:
chi guarda il cielo per ultimo
non lo trova meno splendente.
Spiegatemi voi dunque,
in prosa od in versetti,
perché il cielo è uno solo
e la terra è tutta a pezzetti.

La sala d’aspetto

Chi non ha casa e non ha letto
si rifugia in sala d’aspetto.
Di una panca si contenta,
tra due fagotti s’addormenta.
Il controllore pensa: “Chissà
quel viaggiatore dove anderà?”
Ma lui viaggia solo di giorno,
sempre a piedi se ne va attorno:
cammina, cammina, eh, sono guai,
la sua stazione non la trova mai!
Non trova lavoro, non ha tetto,
di sera torna in sala d’aspetto:
e aspetta, aspetta, ma sono guai,
il suo treno non parte mai.
Se un fischio echeggia di prima mattina,
lui sogna d’essere all’officina.
Controllore non lo svegliare:
un poco ancora lascialo sognare.

Promemoria

Ci sono cose da fare ogni giorno:
lavarsi, studiare, giocare,
preparare la tavola
a mezzogiorno.
Ci sono cose da fare di notte:
chiudere gli occhi, dormire,
avere sogni da sognare,
orecchie per non sentire.
Ci sono cose da non fare mai,
né di giorno, né di notte,
né per mare, né per terra:
per esempio, la guerra.
 

I colori dei mestieri

Io so i colori dei mestieri,
sono bianchi i panettieri,
si alzano prima degli uccelli
e hanno la farina nei capelli.
Sono neri gli spazzacamini,
di sette colori sono gli imbianchini,
gli operai dell’officina
hanno una tuta bella azzurrina,
hanno le mani sporche di grasso,
i fannulloni vanno a spasso,
non si sporcano nemmeno un dito,
ma il loro mestiere non è pulito.

Il giornale dei gatti

I gatti hanno un giornale
con tutte le novità
e sull’ultima pagina
la “Piccola Pubblicità”.
“Cercasi casa comoda
con poltrone fuori moda:
non si accettano bambini
perchè tirano la coda”.
“Cerco vecchia signora
a scopo compagnia.
Precisare referenze
e conto in macelleria”.
“Premiato cacciatore
cerca impiego in granaio.”
“Vegetariano, scapolo,
cerca ricco lattaio”.
I gatti senza casa
la domenica dopo pranzo
leggono questi avvisi
più belli di un romanzo:
per un’oretta o due
sognano ad occhi aperti,
poi vanno a prepararsi
per i loro concerti.

Teste fiorite

Se invece dei capelli sulla testa
ci spuntassero i fiori, sai che festa?
Si potrebbe capire a prima vista
chi ha il cuore buono, chi la menta trista.
Il tale ha in fronte un bel ciuffo di rose:
non può certo pensare a brutte cose.
Quest’altro, poveraccio, è d’umor nero:
gli crescono le viole del pensiero.
E quello con le ortiche spettinate?
Deve avere le idee disordinate,
e invano ogni mattina
spreca un vasetto o due di brillantina.

Speranza

Se io avessi una botteguccia
fatta di una sola stanza
vorrei mettermi a vendere
sai cosa? La speranza.
“Speranza a buon mercato!”
Per un soldo ne darei
ad un solo cliente
quanto basta per sei.
E alla povera gente
che non ha da campare
darei tutta la mia speranza
senza fargliela pagare.

Il treno degli emigranti

Non è grossa, non è pesante
la valigia dell’emigrante…
C’è un po’ di terra del mio villaggio,
per non restar solo in viaggio…
un vestito, un pane, un frutto
e questo è tutto.
Ma il cuore no, non l’ha portato:
nella valigia non c’è entrato.
Troppa pena aveva a partire,
oltre il mare non vuole venire.
Lui resta, fedele come un cane.
nella terra che non mi dà pane:
un piccolo campo, proprio lassù…
Ma il treno corre: non si vede più.

Il giorno più bello della storia

S’io fossi un fornaio
Vorrei cuocere un pane
Così grande da sfamare
Tutta, tutta la gente
Che non ha da mangiare
Un pane più grande del sole
Dorato profumato
Come le viole
Un pane così
Verrebbero a mangiarlo
Dall’India e dal Chilì
I poveri, i bambini
i vecchietti e gli uccellini
Sarà una data da studiare a memoria:
un giorno senza fame!
Il più bel giorno di tutta la storia.

La luna di Kiev

Chissà se la luna
di Kiev
è bella
come la luna di Roma,
chissà se è la stessa
o soltanto sua sorella…

“Ma son sempre quella!
– la luna protesta –
non sono mica
un berretto da notte
sulla tua testa!


Viaggiando quassù
faccio lume a tutti quanti,
dall’India al Perù,
dal Tevere al Mar Morto,
e i miei raggi viaggiano
senza passaporto”.

LA MIA PREFERITA

Il dittatore di Gianni Rodari

 

Un punto piccoletto,
superbo e iracondo,
“Dopo di me” gridava
“verrà la fine del mondo!”.

Le parole protestarono:
“Ma che grilli ha pel capo?
Si crede un Punto-e-basta,
e non è che un Punto-e-a-capo”

Tutto solo a mezza pagina
lo piantarono in asso
e il mondo continuò
una riga più in basso.

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