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Raffaele Bovenzi

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NATALE IN CASA BOVENZI

BALCONE ILLUMINATO

LA LAVATRICE CANDY

CAPODANNO '87

INVICTUS 

LETTERA A PAPA'

VIA DUCA FERRANTE DELLA MARRA 3

NANNINELLA

CONSIDERAZIONI SULL'AMORE (quasi una poesia)

LA MIA NAPOLI

IL MODELLISMO

SONO NATO COSI

​FUOCO E FIAMME

LETTERA A MARISA

 

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LETTERA A MARISA

 

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MENTRE LEGGETE VORREI FARVI ASCOLTARE QUESTO BRANO.IO LO TROVO BELLISSIMO.

SI INTITOLA   " I'LL FIND YOU IN THE DARK "

ED E' LA COLONNA SONORA ORIGINALE DELLA

FICTION "DOC NELLE TUE MANI".

Clicca PER ASCOLTARE

ridatemi la vita

supersantos

 

 

RIDATEMI LA VITA

ricordi, desideri, sogni e illusioni

racconto di Raffaele Bovenzi

© 2023

 

 

Che fine ha fatto l’amore che mi avete promesso da bambino?

Le favole che mi avete raccontato e la giostra dove mi avete fatto giocare, che fine hanno fatto?

Dove sono finite tutte quelle belle parole di speranza che avete detto al mio cuore e quella vita migliore, dove è finita?

Ridatemi il triciclo, il cavallo a dondolo, la culla dove è iniziata la mia vita.

 

Ridatemi le foto bianco e nero con i bordi frastagliati e non l’illusione di un colore che riscalda il cuore.

Ridatemi la speranza di una vita migliore come mi avevate promesso e i tappi di bottiglia con cui giocavo per strada e le biglie di vetro colorate che riempivano le tasche dei miei pantaloncini.

E voglio la prima sigaretta e solo quella, quella Marlboro che mi ha fatto tossire e lacrimare quando è entrata in gola.

 

E fatemi sognare il primo bacio e risentire il sapore delle labbra di colei che non è stata mia, ma che ancora ricordo il suo profumo.

E voglio giocare con le scarpe Superga e con il “supersantos” [1] e con il pallone di pezzi di giornale arrotolati per le strade del quartiere con gli amici ormai lasciati.

Fatemi sentire la musica e le canzoni di un vecchio “Jukebox” [2] e fatemi ballare il “ballo del Mattone” su una mattonella di un vecchio pavimento.

Fatemi passeggiare per le strade dell’amore con il cuore che batte per le emozioni che ho vissuto e fatemi sentire dentro al petto la speranza di un mondo migliore e prima che sia troppo tardi fatemi avverare i sogni che ho sognato.

 

 [1] Il Supersantos è il famoso pallone di gomma 

 dei miei tempi, ma che magicamente non è mai 

 sparito e che tutt’oggi viene venduto e giocato 

 dai ragazzi di mezzo mondo.

 

[2] >Il Jukeboox è il famoso giradischi 

dei bar e delle balere in voga negli anni 50 / 70. 

Inserendo una moneta si ascoltavano e si ballavano 

i brani di successo.

IL FAMOSO SUPER SANTOS

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IL JUKE BOX

GALLERIA FOTOGRAFICA

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Natale in casa Bovenzi 
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Uno dei ricordi più belli della mia infanzia è legato al Santo Natale, perché quei giorni rappresentavano un avvenimento particolarmente gradito: la realizzazione del caratteristico “albero” al quale mio padre si dedicava anima e corpo.

Partecipavo alla realizzazione non tanto fisicamente perché ero ancora piccolo, ma il ricordo di quei momenti e dell’atmosfera che si creava è sicuramente uno di quelli che non si possono mai dimenticare. 

 

L’albero immortalato nella foto a destra

 

non è tanto bello rispetto ai tanti realizzati negli anni da quel vero specialista che era Federico.  I suoi alberi dovevano essere veri ed altissimi, almeno fin quanto permetteva il soffitto di casa; dovevano essere zeppi di palline, di “pazzielle e ciucculata” con giochi di luce impensabili per l’epoca i cui venivano creati da mio padre.

 

Questo nella foto è un albero “finto” e per giunta con i rami bianchi, odiato da mio padre che come ho detto prediligeva gli alberi “vivi” perché doveva sentirne il profumo, l’odore speciale che faceva veramente l’atmosfera natalizia.

Quello che è abbastanza evidente nella foto è l’avversione verso gli alberi finti, perché come ho detto si tratta di uno degli alberi di Natale più “arronzato”.

 

Mettendo a confronto la foto precedente, con le altre

 

la differenza appare abbastanza evidente, anche se sono stati realizzati a distanza di diversi anni.

Nulla era lasciato al caso, i fili delle luci dovevano mimetizzarsi nei rami, le palline erano disposte con criterio, equilibrio ed una precisa distribuzione: la stessa quantità per ogni ramo, le più piccole sopra e le più grandi sotto, i fili argentati allineati e perfetti; una maniacale disposizione che non lasciava nulla all’improvvisazione.

Nella foto si nota l’altezza che se ci fate caso (confrontata con il lampadario a sinistra della foto) arriva quasi al soffitto, e parliamo di un soffitto di una casa “antica” il che significa non meno di 5 metri.

Gli alberi, poi, non dovevano essere mai uguali, ogni anno dovevano avere una caratteristica nuova, una novità inaspettata.

La realizzazione dell’albero (così come fanno i presepisti) iniziava molto tempo prima del Natale, perché papà incominciava a costruire con i “pisellini” e il filo verde, le serie di luci da apporre sull’albero; inventava e costruiva “aggeggi” fatti per l’accensione e lo spegnimento delle luci in modo da darvi una precisa cadenza. Non si accontentava, come tutti della semplice “spina a intermittenza” che era una particolare presa (oggi sostituita con l’elettronica cinese) che attuava lo spegnimento e l’accensione delle varie serie di lampadine.                                                                            

Papà doveva creare effetti speciali! le luci dei suoi alberi si dovevano accendere e spegnere con ritmi e regolarità con una alternanza di luci, prima quelle di un colore, poi quelle di un altro, poi tutte insieme, lampeggiavano e si dissolvevano. Proprio come avviene oggi con le diffusissime strisce di led. Sembra una bazzecola, ma se pensiamo agli anni in cui le realizzava mio padre si intuisce la grandezza e la genialità.

Si, mio padre per me era un “genio”, perché veramente le sue realizzazioni erano fantastiche, non solo agli occhi di un bambino, ma anche per le persone che poi venivano ad ammirare il nostro “albero”.

Oggi le sue costruzioni sembrano sciocchezza messe a confronto con la tecnologia che conosciamo, ma papà le creava con mezzi di fortuna e materiale che riusciva a racimolare, senza spendere grosse cifre e con quello che a quei tempi, e parlo degli anni 50 era possibile trovare. Tutto veniva creato con motorini elettrici di automobiline o trenini non più in uso, carillon, spine e spinotti, carta stagnola, mollette per i panni, cartone e cartoncino e perfino, ricordo una volta gli servì il tubo del rotolo della carta igienica. Materiale che messo insieme dalle sue mani esperte creava ai miei occhi, e non solo, fantastiche coreografie di luci ed emozioni.

E i momenti di gioia e stupore che vivevo vicino a lui durante la progettazione e costruzione di questo materiale è indimenticabile, e non posso scordare la sua e la mia immensa soddisfazione nel vederci felici e raggianti quando, dopo prove e tentavi, la sua opera funzionava perfettamente come lui desiderava.

Un anno, con un registratore a nastro che da poco avevamo acquistato, nascosto alla base dell’albero con un altoparlante fece in modo che ai giochi di luce si accoppiasse anche la musica delle canzoni natalizie.

 

La realizzazione dell’albero, come ho detto iniziava abbastanza in anticipo, e a volte terminava, data la complessità, giusto la vigilia e giusto in tempo per apporci sotto i regali. 

 

 

Così come era precoce la realizzazione, altrettanto tardivo era il disfacimento.

Tanta complessità nella realizzazione richiedeva altrettanta attenzione per riporre le palline, che erano fatte di un vetro fragilissimo (e non di plastica come adesso) e la conservazione delle serie di luci che non dovevano attorcigliarsi nel riporle. 

 

C’era il dispiacere di togliere alla vista tutto quello splendore di luci e per queste motivazioni il disfacimento veniva rimandato con banali scuse e a volte superava di gran lunga la “befana”, ossia il 6 gennaio che canonicamente rappresentava la fine dei festeggiamenti natalizi e la dismissione dell’albero.

 

Uno degli inconvenienti, quasi sempre motivo di piccoli litigi fra papà e mamma, era quello degli aghi di pino, che col passare del tempo, in seguito all’invecchiamento dell’albero “vero” incominciavano ad inondare il pavimento della casa.

 

Ebbene, quel tappeto verde ed oro che si formava a terra era per me un motivo di gioco, manco fosse neve o sabbia; li raccoglievo in un secchiello, li spargevo ovunque, nonostante i richiami e le esortazioni a smetterla fatte dalla nonna Caterina.

 

Erano gli ultimi utilizzi dell’albero, che aveva dato già tutta la gioia che poteva ed ora, prima di finire nella spazzatura riusciva ancora a farmi felice.

Dopo Natale si tornava a scuola felici e contenti in attesa delle prossime vacanze che in qualche modo cadenzavano la nostra vita (senza ponti e week end).

Aspettavo quelle più brevi della Pasqua e quelle estive, più lunghe, più desiderate e più felici perché a differenza di altre vacanze, le passavo tutte con i genitori che godevano delle “sudate” ferie dal loro lavoro.

Quando sono diventato padre, anche io ho fatto ai miei figli l’albero di Natale, a volte “vero” a volte “finto”, ma non ho avuto mai la stessa genialità e pazienza di mio padre; quello che mi meraviglia, nonostante la tradizione da bambino propendeva per l’albero e non per il presepe, io da grande ho preferito dedicarmi di più alla realizzazione del presepe e ho messo in pratica gli insegnamenti del papà realizzandoli con le luci nelle case, con la cascata d’acqua e con la musica.

 

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"Balcone illuminato"

ovvero "la finestra dell'ultimo piano"

Non sono stati solo Romeo e Giulietta ad amoreggiare dal balcone, ma tanti giovani innamorati degli anni 60; e purtroppo anche io. 

Quelli erano gli anni in cui le ragazze uscivano di casa solo per andare a scuola, a messa, o semplicemente a passeggiare, ma accompagnate sempre dalla zia, dalla nonna o dalla sorella più grande; più raramente da sole a “prendere il latte” ossia a fare qualche piccola commissione a pochi metri da casa.

 

Noi spasimanti che eravamo in tale situazione siamo riusciti a risolvere il problema e quando la dislocazione delle finestre o del balcone lo permetteva, passavamo ore ed ore a guardare negli occhi (si fa per dire, data la distanza che a volte ci separava)  la ragazza per la quale avevamo perso la testa, e a parlarci a gesti e segni o con un pseudo alfabeto quello che imitava le con le dita le lettere dell’alfabeto, uno sopra l’altro sotto, una ad una finestra l’altro al balcone, uno per strada l’altra da casa. 

 

Quando potevamo lanciavamo “messaggi” utilizzando le strofe dei brani musicali che volutamente suonavamo ad alto volume. I brani di Morandi e Rita Pavone contenevano parole adatte tipo quella famosa di Morandi “FATTI MANDARE DALLA MAMMA A PRENDERE IL LATTE” che suonava come una chiara esortazione a scendere da casa con quella scusa; ancora quella della Pavone “CUORE” che recitava cosi: Mio cuore tu stai soffrendo, cosa posso fare per te; mi sono innamorata per te pace no, no non c’è. 

 

In un palazzone di Materdei abitavo io ed all’ultimo piano di fronte nello 

stesso cortile abitava la ragazza della quale mi ero innamorato. Questa è la foto (restaurata) del cortile dove vivevamo.

Si trattò di un breve periodo, tanto breve da non riuscire a creare un sentimento durevole, e comunque la cosa è durata fino a quando i genitori di lei non hanno avuto dei sospettati e quindi posto fine “all’idillio”, chiudendo letteralmente la “finestra sul cortile”.

Venuti meno i mezzi di comunicazione, senza nemmeno la possibilità di potersi scambiare sguardi e sospiri, quello che sarebbe potuto nascere fra di noi andò a farsi benedire.

 

Dei “grandi amori” rimangono grandi ricordi; di un piccolo amore che stava sbocciando rimane un piccolo ricordo, ma la foto della prima pagina è speciale, perché possiede una magia.

 

 

Quando la osservo rivedo il volto di quella ragazza, ricordo i suoi capelli biondi, ricordo gli sguardi che ci scambiavamo; guardo questa foto e rivedo i suoi occhi smarriti e compiaciuti al sogno di un abbraccio e di un bacio, quelli smarriti e compiaciuti del nostro primo e unico bacio sulla bocca, rubato un giorno chissà come e chissà per quale fortuna.

Capitò un giorno che “andando a prendere il latte” [che si comprava solo fresco e di giornata, e quindi necessitava di essere acquistato ogni giorno] avemmo la fortuna di stare qualche minuto soli. 

 

Questa foto parla, voi non sentite la sua voce, ma io si: percepisco i suoni, i colori e i profumi di allora e, credetemi, sono sensazioni che ancora oggi mi riempiono il cuore. 

 

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LA LAVATRICE CANDY di Zia Italia

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21 agosto 1963 ( è la data scritta dietro la fotografia )

Nessun oggi, di questi tempi, potrà mai vivere i momenti e le sensazioni che abbiamo ed ho vissuto io negli anni 60. Siamo troppo tecnologicamente immersi nelle nuove invenzioni che nulla più ci stupisce.

I giovani di oggi, trovano, già da neonati, la tv, il frigo, la lavatrice, la lavastoviglie, la calcolatrice, il computer, il telefonino, il microonde, il laser e l’uomo sulla luna: è difficile che nel corso della loro vita futura potranno avere il piacere di vedersi consegnare in casa un oggetto sconosciuto, sballarlo, scoprirlo, vederlo funzionare per la prima volta nella loro vita.

Ero troppo piccolo quando la televisione giunse in casa ed i ricordi sono pochi, ma ero abbastanza grande quando a casa di zia Italia arrivò la prima lavatrice della mia vita.

La Candy, famosa per i suoi non so quanti programmi ….!!!

Quel giorno vi posso garantire che la già affermata e molto seguita TV fu completamente messa da parte e ignorata a favore di quell’oblò dietro al quale o meglio dentro al quale i panni da sporchi che erano diventavano puliti e strizzati.

Trascorremmo tutte le tre ore e passa del lavaggio e del prelavaggio e della strizzatura a guardare i panni ritorcesi fra loro in quel cestello che andava avanti e indietro con una regolarità che quasi ci ipnotizzò per poi stupirci con i suoi improvvisi impulsi di scarico e carico dell’acqua che arrivavano all’improvviso senza che nessuno se li aspettasse.

E non posso dirvi, alla fine del lavaggio, quando vennero fuori le lenzuola pulite e profumate se eravamo più contenti per la fatica che di lì in poi si sarebbe risparmiato a lavare i panni, o per il fatto che la “Candy” avesse superato l’esame della intera famiglia che con scetticismo e perplessità dovette ammettere che aveva lavato e candeggiato meglio di Anna, la cameriera. (ma non lo era, era una persona di famiglia, ma ne parlerò altrove)

E chissà se nella mente della buona e leale Anna, non passò per la testa anche per un solo attimo il pensiero di perdere il posto di fronte a quel mostro senz’anima.

Penso di no, perché a quei tempi avere la cameriera non rappresentava un bisogno strettamente legato ai lavori domestici, specialmente per le famiglie di ceto medio come quella a cui appartenevamo noi, ma più al fatto affettivo di avere una persona del popolino alla quale fare indirettamente del bene in cambio di piccole prestazioni tenendola in casa e ricompensandola pure per quell’aiuto che dava nelle faccende domestiche.

Anna poi era una fornace di ambi terne e quaterne (proprio come nella famosa commedia di Eduardo, “Non ti pago”) senza limiti e rappresentava per la nostra famiglia una smorfia vivente, un pozzo di sogni racconti e "fattarielli" del rione che magicamente si trasformavano in numeri al lotto.

Ma state pur certi che se pure la Candy avesse fatto 100 bucati e stirati i panni e fatto 1000 altre faccende domestiche, Anna non sarebbe mai stata licenziata perché rappresentava un’opera di beneficenza piuttosto che un bisogno effettivo di aiuto, ma principalmente perché la buona e utile lavatrice non avrebbe mai dato a mia nonna e a mia zia i numeri sicuri da giocare al lotto il sabato.

Questa foto con in bella mostra la lavatrice, al di là del suo valore rende giustizia a quell’aggeggio e lo ha immortalato nello splendore della sua inviolata e immutata forma.

La lavatrice moderna e del tutto simile a quella della foto e ciò dimostra un fatto inconfutabile: la lavatrice è la cosa che più resiste ai mutamenti del tempo alla tecnologia e alla volubilità degli stili e delle mode.

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CAMBIA LA MARCA , IL MODELLO , MA IL POSTO DELLA LAVATRICE E' SEMPRE QUELLO.

 

Un pensiero: le lavatrici sono rimaste sempre dello stesso colore.

capodanno 87

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E ’la solita storia di ogni anno.

Ed ogni anno è un fine anno diverso o per un motivo o per un altro.

Comunque è sempre un momento di verifica personale e di riflessione interiore.

L’anno che ci lascia, crediamo o speriamo, non ci riporti nel nuovo le cose peggiori e ci attendiamo dal nuovo anno solo cose buone.

Lascio l’87 con alcuni eventi importanti che segnano sicuramente il passo nella vita di un uomo e in special modo di un padre.

L’anno che è andato ha visto il primo serio amore di Federica, quello di un amico conosciuto in campeggio, che ha sconvolto non poco la mia posizione di padre.

Poi mi ha visto per parecchi giorni con un braccio ingessato.

Il tempo ci ha maturati di un altro anno e ci vede più vecchi un secondo dopo la mezzanotte.

Sembra che si invecchi di più in quel passaggio da un anno all’altro che invece nel suo tempo trascorso.

Federica stasera è andata al suo primo veglione di capodanno e va sempre più per la sua strada di donna.

Come è difficile trovarsi da soli di fronte agli eventi della vita che si rinnova.

Fra qualche anno se Dio vorrà mi ritroverò finalmente a trascorrere il capodanno con i miei figli e … nipotini.

 Ciao 87 vvà ffà nculo.

INVICTUS DI WILLIAM ERNEST HENLEY

di questo testo credo esistano due versioni, una originale quella scritta dal poeta ed una cinematografica tratta da un film.

 “Invictus”, mai sconfitto, indomito. La scrisse il poeta inglese William Ernest Henley. È la poesia che Nelson Mandela si ripeteva negli anni della sua prigionia a Robben Island. La si incontra nel corso della visione del film Invictus di Clint Estwood.

 

William Ernest Henley

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William Ernest Henley

William Ernest Henley (Gloucester, 23 agosto 1849 – Woking, 11 luglio 1903) è stato un poeta, giornalista e editore britannico.

 

N.B. Questa precisazione in questo momento deve essere ancora aggiornata. 

Abbiate pazienza.  

https://it.wikipedia.org/wiki/William_Ernest_Henley

PREMERE PER AUDIO
DELLA POESIA

dalla notte che mi avvolge

nera come la fossa dell’inferno

rendo grazie a qualunque dio ci sia

per la mia anima invincibile

la morsa feroce degli eventi

non m’ha tratto smorfia o grido

sferzata a sangue dalla sorte

non s’è piegata la mia testa

di là da questo luogo d’ira e di lacrime

si staglia solo l’orrore della fine

ma in faccia agli anni che minacciano

sono e sarò sempre

imperturbato

non importa quanto angusta sia la porta

quanto impietosa la sentenza

sono il padrone del mio destino

il capitano della mia anima

CLICCA PER VEDERE SU YOUTUBE

video da youtube

versione originale inglese

Out of the night that covers me,
Black as the pit from pole to pole,
I thank whatever gods may be
For my unconquerable soul.
In the fell clutch of circumstance
I have not winced nor cried aloud.
Under the bludgeonings of chance
My head is bloody, but unbowed.
Beyond this place of wrath and tears
Looms but the Horror of the shade,
And yet the menace of the years
Finds and shall find me unafraid.
It matters not how strait the gate,
How charged with punishments the scroll,
I am the master of my fate,
I am the captain of my soul.

 

traduzione intaliana

 

Dal profondo della notte che mi ricopre
Nera come la fossa da un polo all'altro
Ringrazio gli dei qualunque essi siano
Per la mia anima indomabile.
Nella stretta morsa delle avversità
Non mi sono tirato indietro né ho gridato.
Sotto i colpi d'ascia della sorte
Il mio capo è sanguinante, ma indomito.
Oltre questo luogo di collera e lacrime
Incombe soltanto l'orrore delle ombre.
Eppure la minaccia degli anni
Mi trova, e mi troverà, senza paura.
Non importa quanto stretto sia il passaggio,
Quanto piena di castighi la vita.
Io sono il padrone del mio destino:
Io sono il capitano della mia anima.

il poeta

WILLIAM ERNEST HENLEY

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INVICTUS è anche un film
questo il trailer

invictus film

Invictus - L'Invincibile (Clint Eastwood - Director) Finale - HD

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lettera a papà

federico bovenzi

22 GENNAIO 1917 – 26 SETTEMBRE 1971 

  

Avevo 22 anni quando te ne sei andato, senza rumore, senza dare fastidio. Così come avevi vissuto, tranquillo, educato, sempre sorridente, così te ne si andato. Quanti pochi anni abbiamo vissuto insieme, quanto poco hai potuto vedere della mia vita. Troppo presto te ne sei andato dalla mia vita lasciando quel vuoto fisico che non trova pace, nemmeno oggi dopo quasi 50 anni. Ma quei 22 anni che abbiamo vissuto insieme mi bastano perché mi hanno trasmesso tutto quello potevi darmi, l’educazione, la passione, gli hobby, la fotografia, la pazienza. Non sono un buon cristiano, perché non vengo a trovarti al cimitero, ma lì riposano le tue ossa, mentre tu sei dentro di me, nella stanza accanto, e se voglio qualcosa, se un dubbio mi assale, se ho bisogno di aiuto, so che basta pensarti per trovare la risposta. Questa lettera vuole essere un ricordo della tua vita, di quanto tu hai fatto per me, per questo voglio esprimere tutta la mia riconoscenza:

grazie per essere stato in guerra e pure prigioniero, hai fatto qualcosa per la nostra patria;

grazie per esserti sposato con Elena e quindi per avermi fatto nascere;

grazie per tutte le volte che mi hai portato ad Ischia, in villeggiatura;

grazie per quei bellissimi alberi di Natale che realizzavi con grande fantasia;

grazie per avermi insegnato a guidare già a 14 anni;

grazie per la Vespa 50 che mi hai regalato;

grazie per gli hobby ai quali mi hai fatto appassionare, anche se non sono stato alla tua altezza;

grazie per avermi tenuto vicino a te per ogni lavoretto che facevi, insegnandomi con i fatti e non con le parole a riparare tante cose;

grazie per la passione per la fotografia e la cinematografia.

 

Fotografia e cinematografia hanno cambiato non poco la mia vita e sicuramente sono state determinanti per il futuro di tuo nipote Fabio, che fin da piccolo ha avuto modo di appassionarsi e poi di lavorare e che oggi, con le dovute differenze, rappresentano il suo lavoro. Saresti stato fiero, come lo sono io, e curioso, come lo sono io di apprendere tutte le trasformazioni che il settore ha subito. E saresti orgoglioso dell’altra nipotina Federica, anche di lei saremmo stati fieri e curiosi di seguire le sue continue trasformazioni; non ti puoi immaginare di quante professioni e diplomi e lauree diverse ha preso e di quanti lavori ha cambiato. Oggi avremo mangiato una magnifica pizza nel ristorante di Mauro, il suo compagno. Oggi avresti 103 anni, un figlio (io) di 71 anni, due nipoti, e due (quasi tre) pronipoti. Non ci sono rimpianti, quello che mi hai dato mi è bastato e mi basta, e anche se adesso qualche lacrima bagna la tastiera è perché ho pensato a cosa avremmo potuto avere da te io, Federica, Fabio, Gaia e Mia.

Sai quante belle fotografie avresti fatto. Se è vero che da lassù vedete tutto, allora hai visto pure le cose buone e purtroppo quelle sbagliate che ho fatto, ma sono sicuro che per le cose buone avresti sorriso, per quelle sbagliate, perdonato. Non ho mai avuto uno schiaffo da te, ma quando sbagliavo mi guardavi fisso e con gli occhi mi dicevi tutto non mi parlavi per una settimana, quella punizione mi faceva male più di cento schiaffi; non ti ho mai sentito urlare, o lamentarti per dolori e malattie; ti ho visto lavorare sempre, ti ho visto marito paziente (e quando dico paziente, papà, sappiamo a cosa ci riferiamo) e affettuoso.

Spero che tutto quello che sei stato per me io lo sia per i miei figli e che anche essi un giorno saranno grati a Dio per avere avuto un papà uguale al loro nonno.

 

Ciao papà, ti voglio bene.  

Lello

Napoli 10 luglio 2020

 

CIT. Le persone non si perdono mai se le hai nel cuore. Puoi perdere la loro presenza, la loro voce, ma ciò che ti hanno lasciato, quello non lo perderai mai.

VIA DUCA FERRANTE DELLA MARRA N. 3 NAPOLI

VEDUTA DAL BALCONE

 

Questa la veduta dal balcone della casa di Materdei dove ho abitato per anni.Gli anni della fanciuellezza, gli anni più belli che un giovane possa ricordare alla propria memoria.Dal ’60 al 71, undici anni, dalla scuola media al diploma, dalla fanciullezza alla maturità sono stati undici anni che non si dimenticano e che si portano con piacere nel cuore.I primi amici del rione, i primi amori i giorni sempre sereni e nuovi che quell’età ti dona hanno avuto per protagonista quella strada che vedete in questa fotografia.La ragazza del palazzo di fronte, della finestra accanto sono tutti racchiusi in questi pochi metri di strada.Nel palazzo di fronte sulla destra, l’amico con la chitarra con il quale ho formato il mio primo complessino, e sempre nello stesso palazzo al primo piano abitava un ragazzo che fortuna sua possedeva un “paperino” una sorta di “ciao” d’allora che era poco più di una bicicletta a mototre, ma che era tutto il nostro sogno.Inutile dire quanto era invidiato da noi questo ragazzo.Sempre in quel palazzo la ragazza dai capelli lunghi e neri oggetto delle mie prime attenzioni.Quando con fatica e fortuna riusci a scoprire il suo numero di telefono, quante volte lo composi e non appena sentivo la sua voce mi mancava il coraggio di dirle “ciao”.Poi dopo quando con la lingua in gola e col cuore che galoppava da solo riuscii a parlarle e cercai di conoscerla di strapparle un appuntamento la delusione del suo rifiuto fu grande.

…. ….. ….

E impossibile farvi capire che cosa è stata materdei per me e che cosa e stato quel balcone dal quale è stata fatto questa foto.Fuori a quel balcone ho passato ore ed ore a guardare Marisa che faceva i servizi in casa e mi strizzava gli occhi.Pensate solo questo, Marisa è stata la prima ragazza che mi ha dato un appuntamento, la prima ragazza che ho abbracciato e baciato ed anche amato; anche se lei non si è mai innammorata di me perché ero un poco più piccolo di lei, diciamo che è stato quello che oggi diremmo un “flirt”.Non so se Marisa si ricirda di me, io di lei mi ricordo benissimo, forse il volto col passare degli anni mi si sta sbiadendo alla memoria, ma il suo profumo no, il sapore dei suoi baci e le sensazioni dei suoi abbracci mi sono tanto vivi nella mente che sembrano vissuti appena ieri.

(continua

via duca ferrante della marra n.3 

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Nanninella

CHIRICHIELLO ANNA (la signora “bassina” nella foto)
A sinistra il marito di “nanninella”, alla sua destra la figlia ed il figlio 
nel giorno della “Prima Comunione”


Per tutti “nanninella” soprannome attribuitole principalmente per la sua statura.
La signora Anna è nata con una deformazione alle ginocchia che erano come si dice a  napoli  “a barchetella” ed erano rimaste deformate dalla nascita.
La figlia, nella foto quella bella ragazza con il vestito a fiori, era nata con lo stesso problema, ma grazie anche ai progressi della medicina ed all’intervento della famiglia Liotti fu fatta operare, con gli ottimi risultati che sono fin troppo evidenti.
Ciò premesso vi racconto la storia di Nanninella.
Nannina era la domestica, per modo di dire, della casa di mia nonna paterna, Consiglia Liotti. 
Ho detto “domestica per modo di dire” per due motivi; 
il primo è che all’epoca non venivano chiamate domestiche, ma “cameriere”, un termine che oggi può sembrare dispregiativo, ma che a quei tempi era molto usato, considerato anche il periodo storico nel quale le classi sociali erano ancora abbastanza distanziate;
il secondo perché tutto era, fuorchè cameriera nel senso stretto della funzione; le cameriere nella famiglie del ceto medio erano molto diffuse, (nella mia famiglia sono state presente fin da quando sono nato) ma svolgevano una funzione più sociale che di servitù.
Nannina nella famiglia Liotti, aiutava, collaborava, faceva “i servizi” intesi proprio nel senso letterale della parola.
Puliva la casa, rassettava, togliela la polvere faceva il bucato, ma principalmente era una persona di famiglia, e svolgeva questi compiti al pari degli altri componenti, non era considerata una dipedente, una “cameriera”.
Uno dei compiti principali di Nannina era quello del “gossip” vocabolo moderno per denominare “ ‘o nciucio” (detto in napoletano equivalente a pettegolezzo).
Nannina girava per il rione, ascoltava, guardava, inciuciava e riportava tutte le novità e gli accadimenti del rione.
In pratica era un moderno radiogiornale, una fonte di notizie e curiosità.
E ciò giovava molto alla famiglia in quanto la nonna abbastanza anziana non usciva di casa e quindi solo così poteva essere informata.
Tutto questo “gossip” si trasformava magicamente in ambi terne quaterne, numeri da giocare ogni sabato al “bancolotto”.
Ora non so se conoscete la commedia “NON TI PAGO” di Eduardo de Filippo  e non so se tenete presente la scena dove i protagonisti decidono i numeri da giocare e l’altra scena dove si rinfacciano gli errori commessi nella scelta di quelli giocati piuttosto che altri.
Orbene quella scena era una consuetudine settimanale. Si iniziava quasi immediatamente dopo l’estrazione del sabato, dove appunto si commentavano le scommesse perse, i numeri non “azzeccati” e si incominciavano a fare le dovute correzioni.
E si andava avanti fino al sabato mattina, aggiungendo numeri tratti da eventi recenti, numeri da rigiocari, perché era obbligo di giocarli per tre volte prima di desistere.
Ecco questa era Nanninella, una persona buona, onesta, che beneficiava dell’amore e della gratitudine di tutta la famiglia e che non aveva una contratto, una paga sindacale, ma alla quale non le si faceva mancare nulla, al di là di quello che le spettava. Tutta la famiglia Chirichiello, che certamente non aveva tante possibilità,  era conseguentemente affrancata da questa situazione e la si aiutava in ogni maniera. 
Si pensava allo studio dei figli, a far fare qualche lavoretto al marito Vincenzo (Cenzino)” che ricordo si “arranggiava” a fare il falegname, a non farle mancare abbigliamento e altro.
Il suo ricordo è ben presente, ricordo la sua voce il suo “napoletano” e le parole italiane incomprensibili, al punto tale che mia nonna, per gioco, aveva creato un piccolo dizionario con la traduzione delle sue parole.
Ricordo “lo scannetto” in legno creato Cenzino per permetterle, considerata la sua menomazione, di poter fare il bucato nel lavatoio; ricordo la sediolina dove appena arrivata a casa si sedeva e prima di ogni altra cosa iniziava subito a raccontare le “ultimissime”.
E’ bello, credetemi, avere un così forte e presente ricordo di una persona; vuol dire che essa nella mia vita ha rappresentato qualcosa che non si può e non si vuole dimenticare.


© Raffaele Bovenzi
Napoli 31 ottobre 2020

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Solo per farvi capire l'integrità e l'onestà della famiglia Bovenzi-Liotti, qui sotto alcune scansioni del libretto di lavoro della signora Chirichiello. Anche se l'assicurazione per i dipendenti a quei tempi non fosse obbligatorio la mia famiglia fece in modo di garantirle una copertura.

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Brano dalla commedia

"Non ti pago"

di Eduardo De Filippo

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Chissà quante volte l'hanno giocato e chissà se hanno vinto qualcosa.

Ricordo che raramente succedeva che ingarravano un ambo, ma la vincita nn compensava mai gli importi giocati.

Considerazioni sull' AMORE

Chi conosce l'amore ? 

quello vero

quello senza confini

senza pudore

senza colore

senza sesso.

Nessuno può amare

senza superare i propri limiti,

i limiti della normalità

i limiti della coscienza.

Credete di amare perchè siete fedeli?

perchè state bene insieme?

perchè dormite nello stesso letto?

NO

quello non è amore

è routine dell'amore.

Conoscerete l'amore vero

quando donandovi completamente

non chiederete nulla in cambio

quando supererete

il muro dell'incomprensione

il limite della normalità.

Solo allora

amerete alla follia

perchè l'amore vero non può essere

"normale"

non può essere

"banale".

 

3 ottobre 2013

​© Raffaele Bovenzi

Francesco Gabbani - Viceversa (Official Music Video) -

Sanremo 2020

LA MIA NAPOLI

                                                    La mia Napoli è come il film "La mia Africa". 

 

 

Così come una volta conosciuta l'Africa essa vi resta nel

cuore, così Napoli, se riuscite a conoscerla bene,

vi resterà per sempre nel cuore e nella mente.

Ho detto se riuscite  a conoscerla veramente, ossia se vi

togliete di dosso tutti gli stereotipi che ci sono in giro,

e se riuscite a setacciare i napoletani "veraci" da quella

poca feccia che purtroppo inquina l'azzurro del mare e

del cielo.

La Napoli vera non è quella dei film di "camorra" non è

quella che spesso è sulle prime pagine dei tg, la Napoli

vera è quella che incontrerete per strada, nei vicoli dove

vi dicono di non andare perchè vi "scippano" la borsa.

Forse sarà vero forse capiterà pure, ma non sarà ne più

nemmeno di ciò che accade nelle altre città, densamente

abitate e con un indice di povertà che fa paura; solo che è facile parlare degli scippi di Napoli piuttosto dei furti alla stazione Termini di Roma o a Milano o nel resto d'Europa.

I napoletani lo sanno, non camminano con le collane d'oro e i Rolex al polso, i napoletani lo sanno, ed anche i turisti dovrebbero saperlo.

L'occasione fa l'uomo ladro e l'uomo napoletano non è diverso dagli altri uomini ladri sparsi nel mondo.

La Napoli che potrete trovare sarà quella dei sapori e degli odori quella del folclore e della solidarietà, e anche se troverete qualche sacchetto di spazzatura non fate di ogni erba un fascio, per un napoletano scostumato ( ma sarei più propenso a definirlo ignorante: ignora il danno che fa a se stesso e ai suoi figli) ce ne sono altri mille corretti e ligi al dovere.

Il DOVERE, un altro falso mito sui napoletani; vengono spesso definiti sfaticati, assenteisti; è vero, sono SFATICATI per assenza di FATICA, assenza di lavoro, quello ufficiale, quello con il contratto e i contributi.

Invece Napoli ha il primato di lavoratori a nero,  non per scelta loro, ma per BISOGNO. Cattivi e disonesti imprenditori per evadere le tasse pretendono questo: prendere o lasciare.

Il "pesce "fete" d'a' capa" il pesce puzza dalla testa, cita un proverbio, ed è così, ma la testa non è quella degli imprenditori disonesti, ma quella dei controllori del controllo degli addetti al controllo sul lavoro, sulla sanità, sulla spazzatura, sulla pulizia delle strade, sugli scippi, su tutte le piccole "disobbedienze" al codice che prese singolarmente sono un granello, ma tanti granelli fanno una sabbia che poi il vento delle maldicenze sparge in giro e che annebbia il sole nel cielo azzurro che illumina il mare azzurro nell'azzurro dell'anima dei napoletani.

 

14 agosto 2020

© Raffaele Bovenzi

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IL MODELLISMO

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Il modellismo, costruzione di piccoli modelli aerei che volavano attaccati ad un filo che fungeva da telecomando roteando in cerchio intorno alla persona che lo pilotava. Erano dotati di piccoli motori a scoppio alimentati a benzina.

Mio padre li costruiva con una santa pazienza, ed io assolutamente inesperto in quel tipo di pilotaggio, li distruggevo in pochi minuti; questo tutte le volte che andavamo a tentare di farli volare negli spazi del bosco di Capodimonte.

Migliore fortuna avevano i modellini di navi che con la stessa pazienza e con le stesso amore mio padre realizzava.

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SONA NATO COSì

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Sono nato per mano di una levatrice,[1] per dirla in napoletano “una vammana” nella stanza da letto dei miei genitori, senza “parto indolore”, “pilotato” o “nella vasca”, tutto al 5° ed ultimo piano di un palazzone di Via Foria, dove non c’era l’ascensore, il riscaldamento, il frigorifero, la televisione ed il telefono. Non c’era nemmeno il citofono che era sostituito da una specie di tubo e fischietto dove si percepivano appena le parole, ma del resto era inutile, perché la porta blindata di oggi era sostituita da una stupenda porta con vetro satinato e fregi, che bastava spingere per entrare.

Mi lavavano in una tinozza di stagno ed i panni che indossavo erano stirati con un ferro “di ferro” senza vapore riscaldato sulle carbonelle del fornello di cucina, ossia il “’o fuculare” raccolti da uno stendino a cupola poggiato sopra il “braciere” che riscaldava la casa d’inverno ed asciugava pure i panni che non erano stati lavati con l’ammorbidente ma che erano lo stesso morbidi e profumati.

Sul focolare si cucinava il pranzo, nelle pentole di terracotta e nelle stoviglie di porcellana si adagiavano le pietanze pronte per essere portate in tavola.  Il focolare alimentato a carbonella era ingegnoso, perché con cerchi concentrici di ferro si adattava alla grandezza delle pentole, dalla più piccola al pentolone dove si scaldava l’acqua.

Non ho bevuto l’acqua minerale “senza bollicine e senza sodio”; l’acqua che scorreva dal rubinetto ed era fredda di inverno e calda d’estate e che faceva fare lo stesso “plin plin” .

I piatti piani e fondi erano segnati da fenditure ed erano quasi sempre “scardati” e si usavano fino a quando le lesioni non erano da tali da comprometterne la tenuta. Ognuna di quelle lesioni e rotture dei bordi stavano lì a ricordarti i danni fatti con le forchette ed i cucchiai che tanto erano pesanti che spesso nelle mani dei bambini provocavano solo danni.

Non ho bevuto nei bicchieri di plastica acqua versata da bottiglie di plastica e non mi sono mai asciugato la bocca con i tovaglioli di carta ma con dei bellissimi “salvietti” talmente duri che la bocca la scartavetravano per pulirla proprio bene.

L’acqua calda non era fatta dallo scaldabagno, ma dal fornello della cucina e versata nella tinozza o nel catino dove si lavava la faccia e le mani.

Nel bagno che allora si chiamava gabinetto, c’era solo il cesso, ed era posizionato, non so se per motivi igienici o costruttivi, fuori al balcone della cucina. Il bidet era nella stanza da letto, ma lo usavano solo i grandi, ognuno aveva il suo nella stanza da letto; io ad ogni cambio venivo lavato sotto il lavello del bagno.

Però i bambini avevano la fortuna di fare la pipì e la cacca dentro al vasino rigorosamente di ferro smaltato.

Sono cresciuto senza i pannolini che assorbono la pipì non arrossano la pelle e ti mantengono asciutto, ma con dei pannolini di puro lino che erano morbidissimi.

Sono cresciuto senza la lavatrice sostituita dal lavatoio dove su una asse di legno si sfregavano i panni insaponati con un sapone dal colore giallo e da un odore inconfondibile, ma che lavavano i panni rendendoli bianchissimi, senza il bisogno dell’ammorbidente, dell’anticalcare, del prelavaggio. In effetti il prelavaggio c’era, ma consisteva nel lasciare la biancheria dentro l’acqua e sapone  per uno o due giorni di ammollo.

 

[1] La levatrice era l'attività svolta nel passato da chi assisteva le donne durante il parto. Oggi sono state sostituite (non dovunque) dalle ostetriche.

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FUOCO E FIAMME

 

In qualche parte del mondo la gente muore per

la siccità, e in qualche altra parte muore per le piogge

e le inondazioni.

Terremoti e vulcani fanno sentire la loro potenza e

sprigionano le forze della natura piegando gli uomini,

mettendoli in ginocchio, nudi sulla nuda terra.
Una nazione sull’orlo della crisi finanziaria può

sconvolgere l’intera economia del mondo, trascinando

nazioni ricche e sane in un fallimento globale.

Perché l’uomo cerca sempre più la guerra e il litigio,

piuttosto che la pace e l’amore.

Questo mondo in cui viviamo e che gira intorno al sole

sospeso nel nulla e mantenuto da chissà quale

mistero e che naviga nell’infinito, appartiene ad un

popolo che non lo merita, un popolo che lo sta

distruggendo poco alla volta, senza accorgersene.

 

Perché l’istinto di sopravvivenza non frena la mano dei potenti e dei ricchi che con le loro tasche piene credono alla loro onnipotenza e immortalità,  perché i poveri che soffrono la fame ed il dolore, conducono la loro vita nell’odio del fratello piuttosto che cercare una mano amica, che esiste e che è sempre pronta ad aiutarli.
Che strano questo mondo in cui un essere fatto da cellule sangue e materia uguale, ha assunto diversi colori di pelle, ha imparato religioni e lingue diverse; perché questo mondo ha creato animali utili ed inutili, animali feroci e mansueti.
Che strano questo mondo che gira in silenzio intorno al nulla e mantiene in piedi le persone all’altro capo del mondo e che sono a testa in giù attirati da un magnetismo che ci incolla al terreno e che ci mantiene legati e uniti.
Che strano questo essere umano che si droga e che uccide mogli e figli e fratelli, senza nessun ritegno, senza nessuna paura della pena. Questo essere umano che in ogni religione ha creato il paradiso e l’inferno e poi non lo rispetta e non lo teme.
Che strana questa vita, che ci dona amore e speranze, sogni e dolori, figli e ricchezza, povertà e gioia, ma poi finisce, nella morte, nel nulla.
Guardando quello che  ci succede intorno, vicinissimo alle nostre case oppure lontano nell’altra parte del mondo saremmo portati allo sconforto, alla disperazione.
Ma la cosa più strana del mondo, la cosa più strana dell’uomo della donna dei bambini di tutti insomma, e che siamo essere umani, che ci poniamo difronte alla vita e alla eternità con la stessa forza e la stessa speranza con la quale veniamo al mondo, la cosa più strana di questo mondo e che la nostra vita vive sulla speranza, sulla fede, sulle attese che ci vengono incontro, e sull’alba che viene sempre dopo la notte, e sul sole che splende sempre dopo la pioggia.
La cosa più strana e che riusciamo a vivere in questo mondo, dove tutto sembra impossibile e dove tutto è possibile.

 

 

Napoli 22 luglio 2011

©  Raffaele Bovenzi

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audio: LIFE WILL GO ON
CHRIS ISAAK

LETTERA A MARISA

Ciao,

 

ti scrivo nella speranza che un misterioso destino possa un giorno farti leggere questa mia lettera, che affido all’unico mezzo oggi in grado di diffondere qualcosa: “internet” che con le sue molteplici ed assurde invenzioni come “facebook”, “instagram”, “messenger” e via dicendo potrebbe fare “il miracolo”.

Perciò affido questa mia alla “rete” nella speranza che possa giungere a destinazione.

Sono Lello, quello che per un periodo della sua vita è stato il tuo dirimpettaio nel parco dove abitavamo, io scala B tu scala C, entrambi al terzo piano di Via Duca Ferrante della Marra n.3.

Il mio balcone aveva una favorevole posizione per ammirarti quando ti affacciavi alla finestra della cucina.

Perciò non c’è voluto molto per innamorarmi di te solo ad averti vista, io tredicenne sbarbatello, tu più grande di me, una bellissima e desiderabilissima ragazza.

Quando le mie attenzioni nei tuoi confronti si sono fatti sempre più insistenti, te ne sei accorta, e li hai accettati con un poco di diffidenza, ma con benevolenza.

Allora ho iniziato a inondarti di canzoni ad alto volume, per farti arrivare il mio pensiero, il mio desiderio, le mie aspettative, non avendo altro mezzo più efficace per comunicare con te. [1]

Un giorno però non è stato difficile nel momento in cui ti ho vista scendere, buttarmi a capicollo per le scale per raggiungerti in strada.

Mi sono precipitato per le scale e non so nemmeno io come sia riuscito a vedere la direzione che avevi preso fuori dal cancello, per poterti raggiungere.

Il mio passo più veloce del tuo mi ha consentito di avvicinarmi, ma il coraggio di parlarti mi è venuto quando ti sei accorta che ti seguivo e ti sei fermata e ci siamo trovati, finalmente, faccia a faccia, ed io potevo finalmente parlare con la ragazza dei miei sogni.

Volevo dirti quanto eri bella, quanto desideravo farti la corte, quanto avrei voluto stringerti e sentire la tua voce che non conoscevo ancora e . . . . . .

Ma evidentemente le parole sono rimaste solo nella mia mente, dal momento che a parlare fosti tu. [2]

Non ricordo cosa ci siamo detti, perché il cuore batteva forte, la mente era offuscata dalla tua ravvicinata presenza [3]; so solo che le tue parole mi hanno cambiato la vita, perché avevi accettato di poterci rivedere, di frequentarci.

Così abbiamo deciso un secondo appuntamento, mi avresti fatto un cenno dalla finestra, quando ci saremmo potuti vedere.

Mi hai salutato con un sorriso, i tuoi occhi mi hanno fatto un cenno d’intesa, e siamo andati ognuno per la sua strada; tu a continuare la tua commissione, io di corsa a casa, perché dovevo sfogare la mia gioia saltando e gridando, e non potevo certo farlo per strada.

Arrivato a casa ho acceso il mangiadischi e con il volume al massimo ho sfornato tutto il repertorio di canzoni d’amore, in primis Morandi e Pavone, che sembrava scrivessero le canzoni apposta per me.

Da quel momento, non ho vissuto solo per aspettare il tuo cenno, le ore ed i giorni mi sembravano interminabili e “fatti mandare dalla Mamma a prendere il latte” di Morandi non sembrava sortire effetti immediati.

Ho passato i giorni seguenti costantemente fuori al balcone, per fortuna era settembre, nell’attesa. E mai attesa fu più dolce e desiderata, mi sentivo felice e i dischi che ascoltavo iniziavano ad avere un'altra musica.

Poi è successo, un giorno con uno splendido sorriso dalla finestra di casa tua è partito il segnale convenzionale: scendiamo.

Questa volta le scale le ho fatte lentamente, perché non volevo accelerare ancora di più il mio cuore che batteva all’impazzata.

Ho messo il pantalone più bello e la camicia più simpatica, per fare colpo su di te, una mano nei capelli per aggiustarli (come erano neri e lunghi) e via.

Partiva il primo incontro della mia vita con una ragazza, una femmina, una donna bellissima, e la tua bellezza era per me, stavo per incontrare la ragazza dei miei sogni.

Per strada ti seguivo: andavamo in cerca di un posto in cui parlare senza essere visti da occhi indiscreti [4] e lungo la strada mi domandavo se fosse vero, se stesse accadendo veramente, se una ragazza così bella potesse dedicare le sue attenzioni a me.

E così è stato.

Ringrazio Dio che il mio primo amore sia stata tu, più grande di me, e sicuramente non al tuo primo incontro e certamente più esperta di me, perché non avrei mai avuto il coraggio di abbracciarti.

Ti ringrazio, perché hai capito, e mi hai stretto fra le tue braccia, hai dissolto la mia timidezza, facendomi sentire tutto il tuo profumo, facendomi accarezzare il tuoi capelli e soprattutto poggiando le tue labbra sulle mie in un bacio che non dimenticherò mai.

Il mio primo bacio, all’inizio ridicolo, labbra su labbra, un bacio a stampo come si dice oggi, ma tu delicatamente con esperienza, e senza offendere la mia imperizia, mi hai insegnato con calma ed esperienza, a baciare.

Tu Marisa sei stata la maestra più brava che potessi avere; le tue lezioni mi sono servite perché ho imparato ad amare le donne; mi hai “iniziato” alle gioie e ai dolori dell’amore, con naturalezza, con passione; ho fatto dono prezioso dei tuoi insegnamenti che poi ho messo  in pratica con altre ragazze questa volta con la certezza di saper baciare e soprattutto amare con dolcezza e sentimento, con una passione che non è mai violenza, ma desiderio consapevole di dare quello che una donna desidera.

Il modo comune di dire “il primo amore non si scorda mai” è assolutamente vero, almeno per me!

Non ho mai più provato quelle sensazioni che mi hai dato; non c’è stato mai più “il primo bacio”; sono stati tutti secondi.

Quelli scambiati con te sono stati unici e rimarranno unici per sempre; gli altri baci sono stati “altri baci”.

Cara Marisa, oggi dopo tanti anni ti confesso che mi dispiace di averti conosciuta quando non avevo esperienza con le ragazze, perché se fossi stato un poco più grande e già preparato all’arte dell’amore, avrei desiderato tanto, ma tanto andare con te oltre quei baci, che oggi mi fanno sorridere per la loro semplicità e castità e mi hanno lasciato il desiderio di quello che non c’è stato, di non averti potuto amare come meritavi di essere amata.

Ma non conoscevo il seguito delle lezioni d’amore e tu, giustamente come insegnante non potevi andare oltre il bacio; dovevo essere io, dopo il tuo incipit a proseguire nella maniera che mi avresti consentito (chissà cosa), ma è andata così.

I nostri successivi incontri sono proseguiti per poco tempo; giustamente ti sei stancata di me, dell’uomo dei baci (questo l’ho capito col tempo) e i tuoi cenni di incontro sono diventati sempre più rari ed un giorno la finestra non si è aperta più.

L’estate è finita e sono iniziate le scuole e le nostre strade hanno preso la direzione che aveva scritto il destino.

E’ stato bellissimo averti conosciuta ed amata ed è stato anche semplice e senza dolore averti persa.

Questa mia lettera è per ringraziarti, perché i ricordi legati a te sono belli, sono duraturi e quando riaffiorano alla mente si materializza la tua bellezza, rivedo il tuo corpo e sento il sapore fresco dei tuoi baci, dolci e appassionati.

Il tuo ricordo mi fa rivivere ancora oggi l’emozione vissuta con quel bacio, ancora oggi mi fa sorridere e dolcemente mi riporta i colori e gli odori della gioventù e vedo intorno a me le persone ed i luoghi dove abbiamo vissuto e la strada dove ci siamo baciati.

Forse nemmeno ti ricordi di me.

Forse nemmeno ti rendi conto del bene che mi hai fatto e delle conseguenze piacevoli che ha avuto la nostra breve conoscenza ed il nostro breve amore.

Forse non ci siamo veramente amati, perché l’amore è un'altra cosa, perché non ti ho corteggiata, come poi ho fatto con le altre ragazze, perché non ti ho fatto regali, non ci siamo scambiati la “fedina” che all’epoca si portava tanto, perché non abbiamo mai litigato.

E stato un “amore di gioventù” che come la gioventù “se ne è andato e non ritorna più“.

 

Tuo Lello

 

[1] (bella invenzione i telefonini)

[2] (chi sa che faccia di cazzo devo aver avuto in quel momento, a pensarci bene!)

[3] (era la mia prima volta a pochi centimetri da una ragazza)

[4] (I rapporti fra ragazzi all’epoca non erano così facili e semplici. Le ragazze non potevamo farsi vedere da sole con un ragazzo, se qualcuno che so, una vicina che non si faceva i fatti suoi, avesse riferito ai genitori di averla vista con un ragazzo erano guai)

AUDIO: LIFE WILL GO ON - CHRIS ISAAK