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Raffaele Bovenzi

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RICORDI DI BAMBINO

 

seguito di

 

Sono nato per mano di una levatrice

 

 

 

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 “Ciò che nella vita rimane, non sono i doni materiali, ma i ricordi dei momenti che hai vissuto e ti hanno fatto felice. 

La tua ricchezza non è chiusa in una cassaforte, ma nella tua mente. 

È nelle emozioni che hai provato dentro la tua anima.”

 

Alda Merini

Aspettavo il Santo Natale per avere un giocattolo di latta ed il compleanno per mangiare i biscotti inzuppati nella cioccolata fatta con il cacao in polvere.

Non ricordo di avere sofferto il caldo o il freddo anche se abitavo in una casa all’ultimo piano, come si dice a Napoli: “asteco e cielo” considerato che non esisteva il riscaldamento e tanto meno l’aria condizionata d’estate.

 

Ricordo il “braciere” per riscaldarsi nelle giornate 

più fredde d’inverno, dove del carbone 

emanava un tiepido calore, (oltre a monossido 

di carbonio) e ricordo una strana costruzione 

che si poggiava sul braciere per fare asciugare 

i panni. Figuratevi il profumo che assorbivano

 quei panni, altro che ammorbidente! 

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Non ricordo la disperazione per la mancanza delle merendine e dell’ovetto Kinder, del pane fresco ogni giorno e non ricordo problemi legati al cibo acquistato spesso “sfuso” come l’olio e il sugo concentrato di pomodoro, piuttosto che la sugna ed i maccheroni e la pasta mista fatta dalle “remmasuglie e bancone”, ossia tutti i pezzetti di pasta che risultavano dal taglio dei formati più grandi.

Non ricordo le vaccinazioni obbligatorie, ma i giorni passati a letto con il morbillo e la varicella che ti aveva trasmesso il tuo compagno di scuola o di gioco; le mamme portavano i bambini sani a casa di quello con la malattia “esantematica” apposta per immunizzare il proprio figlio creando così una sorta di immunità di gregge che ci ha protetti almeno fino a quando, grazie a Dio i vaccini non sono diventati obbligatori.

Ricordo i nonni, perché le famiglie erano “allargate” (non come intendiamo oggi ossia due papà due mamme e svariati figli da più compagni, si viveva quasi sempre a casa dei nonni, vuoi per necessità vuoi per scelta) e la domenica era una vera festa, una occasione per riunire oltre ai componenti della casa che già erano tanti, i parenti: zii e cugini e se c’era, veniva invitata la zia benestante, (ce ne era sempre una in ogni famiglia).

Quelle domeniche venivano allietate da una tavola imbandita anche con i dolci.

Non ricordo il traffico e l’inquinamento; non avevamo la macchina e nemmeno il motorino ed i bambini più fortunati quando erano promossi alla scuola superiore avevano in regalo la bicicletta quella con le ruote grandi.

Non avevo l’orologio digitale e nemmeno quello a sfere, quello era il classico regalo della “prima comunione” e ci veniva dato dal compare.

Regalo che lo stesso giorno della comunione ci veniva regolarmente confiscato dai genitori e custodito gelosamente insieme a qualche oggettino d’oro.

Mi ricordo la radio, un apparecchio enorme con dentro anche il giradischi e i dischi a 78 giri con due casse laterali, la radio dove mio padre la domenica a volte ascoltava qualche trasmissione interessante.

A tavola la sera si cenava con il racconto della giornata lavorativa dei genitori e il telegiornale, che non esisteva, era sostituito dal commento delle notizie raccolte con il passa parola del quartiere.

A cena temevo le punizioni dei genitori per aver disubbidito ai nonni o per aver fatto qualche cosa di sbagliato a scuola; punizione che non mancava mai, senza possibilità di trovare scuse, ma che consisteva in lavate di testa e rimproveri che facevano più male delle botte.

I genitori che lavoravano rappresentavano l’unica fonte di notizie del mondo esterno, considerato che i nonni materni, con i quali abitavo, uscivano di casa solo per la messa di Natale e Pasqua a causa della loro età avanzata e anche perché abitavamo al quinto piano (di quelli di 5 metri di altezza ognuno) di un palazzone a Via Foria, ovviamente senza ascensore.

Sono ritornato in quel palazzo per combinazione 65 anni dopo, perché presente uno studio medico dove fare della fisioterapia. Ebbene sono rimasto di stucco per la sensazione che ho provato: tutto era più piccolo di come ricordavo. Da piccolo quelle scale mi sembravano enormi, larghe spaziose con dei ballatoi grandi e invece ho trovato tutto diverso da come era. E’ evidente che gli spazi fossero gli stessi: sono cambiate le misure, le mie e non quelle del palazzo; vedevo le cose come un bambino di mezzo metro di altezza quella che avevo negli anni 50 

Ricordo il profumo, l’odore dell’asilo, della scuola elementare, dell’inchiostro e le macchie sulle dita e la carta assorbente e i pennini stilografici e il grembiule. 

Ricordo la maestra il suo viso ed i suoi capelli bianchi, la sua bontà e la sua pazienza; non ho mai sentito una sua “sgridata” e non ho mai avuto un rimprovero, ma solo esortazioni.

Ricordo la cartella di cartone ed il panierino di vimini, e i compagni e tutti con i grembiuli uguali con fiocco azzurro per i maschi e rosa per le femminucce.

Non c’erano classi miste; i maschi da una parte le femminucce dall’altra; ma non era un problema, abbiamo sempre rispettato e “sfruculiato” le femminucce nei corridoi e fuori dalla scuola, senza però offenderle o trattarle male. A scuola eravamo tutti uguali, ricchi e poveri, belli e brutti alti e bassi magri e chiatti e nessuno mai si è sentito “bullizzato” per qualche sfottò.

 

Non ho sofferto la mancanza dei video 

giochi perché bastavano due mollette 

dei panni per inventarsi una pistola laser. 

Non ricordo di aver sofferto la mancanza 

della coca cola e degli hamburger che 

erano degnamente rappresentate dalla

 “idrolitina” e dalle polpette al sugo.

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La cucina era scarna ed i giorni della settimana erano scanditi dal pranzo del giorno: lunedì fagioli, martedì piselli, oppure giovedì gnocchi (ma erano un lusso) e così via; ma la domenica pasta con il ragù non mancava mai e rappresentava un pranzo da “master chef” una prova per le mogli che si dovevano confrontare con il ragù della suocera che era sempre più buono. 

'O rraù ca me piace a me         

m' 'o ffaceva sulo mammà.
A che m'aggio spusato a te,

ne parlammo pè ne parlà.
Io nun sogno difficultuso;
ma luvàmell''a miezo st'uso.
Sì, va buono: cumme vuò tu.
Mò ce avèssem' appiccecà?
Tu che dice? Chest'è rraù?
E io m'a 'o mmagno pè m' 'o mangià...
M' 'a faje dicere na parola?
Chesta è carne c' 'a pummarola. 

EDUARDO LEGGE LA SUA POESIA
 ‘ O RRAU’

A questa poesia è legato un altro ricordo della mia infanzia. A piazza Municipio (dove oggi c’è Mc. Donalds) esisteva  un famoso ristorante che si chiamava “PIZZICATO” . 

Era tipo mensa e si sceglieva tra piatti già pronti da mangiare al tavolo. Qualche volta mio padre mi ha portato a mangiare li. 

Su un muro di questo locale spiccava a caratteri cubitali proprio questa poesia di Eduardo. Quello è stato il mio primo incontro con il grande Eduardo.                                                             

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PIAZZA MUNICIPIO

QUELLO ILLUMINATO 

(a destra) 

E' IL RISTORANTE “PIZZICATO” 

Se oggi per magia si potesse tornare indietro a quelle abitudini di non più di 60 anni fa, credo che pochi ragazzi riuscirebbero a sopravvivere, perché i nostri figli sono cresciuti al passo con i tempi e con le comodità che avevamo a disposizione creando così una dipendenza non indifferente dal consumismo che non è il volano dell’economia, ma un meccanismo che crea continua ricerca del meglio e del superfluo e viene alimentato dalla pubblicità e della spinta della globalizzazione.

Oggi dalla più tenera età ogni bambino ha tanti orologi e tanti telefonini, per non parlare dei giocattoli e dei vestiti firmati, abbiamo tanti televisori e tante auto per ogni famiglia, tanti computer e tanta, troppa plastica. Sprechiamo così tanta acqua e buttiamo così tanto cibo e nemmeno ce ne rendiamo conto.

Questo è il tempo che passa, la vita che va avanti e che forse rimpiangiamo solo noi “anziani” che nell’arco della nostra vita abbiamo vissuto l’emozione di vedere nascere tante invenzioni e poter usufruire di cose che non avremmo mai immaginato. 

I nostri figli hanno trovato “o cocche munnate e bbuone"

 

E’ un modo di dire napoletano, trovare l’uovo sbucciato e cucinato, vuol dire avere tutto già a disposizione e pronto e quindi non dover fare nessuna fatica.

 

e per loro sono state e saranno poche le emozioni di grandi scoperte e nuove comodità. Oggi i giovani non fanno altro che aggiornare il loro telefonino al nuovo modello, vivono una vita sui social e piuttosto che un abbraccio o una parola preferiscono un “like” su “facebbok” o su “instagram”.

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